L’istituto
È notte fonda a Minneapolis, quando un misterioso gruppo di persone si introduce in casa di Luke Ellis, uccide i suoi genitori e lo porta via in un SUV nero. Bastano due minuti, sprofondati nel silenzio irreale di una tranquilla strada di periferia, per sconvolgere la vita di Luke, per sempre. Quando si sveglia, il ragazzo si trova in una camera del tutto simile alla sua, ma senza finestre, nel famigerato Istituto dove sono rinchiusi altri bambini come lui. Dietro porte tutte uguali, lungo corridoi illuminati da luci spettrali, si trovano piccoli geni con poteri speciali – telepatia, telecinesi. Appena arrivati, sono destinati alla Prima Casa, dove Luke trova infatti i compagni Kalisha, Nick, George, Iris e Avery Dixon, che ha solo dieci anni. Poi, qualcuno finisce nella Seconda Casa. «È come il motel di un film dell’orrore», dice Kalisha. «Chi prende una stanza non ne esce più.» Sono le regole della feroce signora Sigsby, direttrice dell’Istituto, convinta di poter estrarre i loro doni: con qualunque mezzo, a qualunque costo. Chi non si adegua subisce punizioni implacabili. E così, uno alla volta, i compagni di Luke spariscono, mentre lui cerca disperatamente una via d’uscita. Solo che nessuno, finora, è mai riuscito a evadere dall’Istituto.
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Tra la moltitudine di fan di Stephen King, c’è una larga frangia di fanatici. Quelli che, invariabilmente, a un certo punto iniziano ad assumere atteggiamenti morbosi verso l’oggetto della loro idolatria. E che, in genere, finiscono per odiarlo o per pretendere che scriva quello che vogliono loro. In particolare, molti fan(atici) di King vanno avanti da anni con la solfa dello scrittore ormai finito, magari dopo il famoso incidente nel quale si salvò per un pelo intorno al cambio di millennio.

 

Questo per chiarire che spesso, spulciando tra le recensioni, va fatta un po’ una tara su chi sminuisce per partito preso tutte le opere – o quasi – del King maturo.

L’istituto, però, uscito nel 2019, è un romanzo che ha messo d’accordo un po’ tutti, compresi i lettori più critici. Il libro va a inserirsi in quello che io chiamo il filone di mezzo di Stephen King. Ovvero, quei romanzi che non raggiungono la mastodontica opulenza dei capolavori come It o L’ombra dello scorpione – oltre le mille pagine – ma si distaccano da quelli molto più brevi, a volte vere novelle contenute in raccolte di racconti (Il corpo, Vengo a prenderti) o episodi decisamente minori, come La bambina che amava Tom Gordon.

L’istituto ha una durata di quasi seicento pagine, lunga, certo, ma nella media quando si parla di King.

 

La storia prende le mosse con un classico kinghiano, quello che potremmo definire un lungo MacGuffin, ovvero la descrizione di un personaggio che pare dover essere il protagonista e che invece scompare poi per una lunghissima parte della vicenda. Lui è Tim Jamieson ed è un po’ l’archetipo di tanti personaggi dello zio King, tanto che a me è venuto facilissimo immaginarlo con le fattezze di Tim Daly, l’attore che interpreta un ruolo simile nella bella miniserie La tempesta del secolo.

Tim è il tipico bravuomo a cui le cose sono andate storte, un outsider pieno di qualità umane che si trova per caso nella situazione di dover scegliere da che parte stare e di fare la cosa giusta, anche a rischio della propria vita. L’uomo è un ex poliziotto che si è dovuto dimettere per evitare guai peggiori in una situazione in cui non ha colpe.
Ha un futuro assicurato a New York, ma a un certo punto, senza una vera ragione, decide di deragliare dal suo destino, di pescare un jolly piuttosto discutibile cedendo il suo posto in aereo e mettendosi a fare l’autostop. Il destino lo porta a DuPray, cittadina inventata che sfoggia le tipiche caratteristiche dei luoghi impossibili di King, molto più reali di tante città romanzesche che esistono realmente.

 

Qui la sua storia si interrompe e inizia la vicenda principale, quella di Luke Ellis, un ragazzino prodigio che a dodici anni è pronto per iscriversi a due università. La sua parabola si interrompe bruscamente quando una notte un commando irrompe in casa sua, uccide i genitori e lo rapisce. Il ragazzino si risveglia nell’Istituto del titolo, un luogo a metà tra un lager nazista e un riformatorio di lusso, dove i bambini vengono utilizzati in apparenza come cavie per esperimenti che rimandano a quelli del famigerato dottor Mengele.

 

Luke fa subito amicizia con una serie di coetanei, o quasi, personaggi per cui King sfoggia tutta la sua maestria, tornando a tratteggiare il mondo della pre-adolescenza con l’abituale perfezione, degna di It e Il corpo, anche se forse in modo un po’ meno lirico. Nell’istituto, in realtà, vengono cooptati ragazzini dotati di poteri extrasensoriali, caratteristica che Luke possiede ma in grado non molto elevato. Luke si ritrova così, da enfant prodige abituato a primeggiare con facilità, in un ambiente dove la caratteristica richiesta lo relega nelle retrovie.

 

Il ragazzino non è però il tipico clichè del bambino super-intelligente ma un po’ chiuso e disturbato. No, Luke è empatico e fa amicizia facilmente e ha uno spiccato problem solving. Ovvero, non fatica a mettere a frutto la sua incredibile intelligenza per far inceppare i meccanismi oliati da decenni del misterioso istituto, riuscendo a organizzare una rocambolesca fuga che lo porterà – come avrete capito – a trovare sulla sua strada Tim Jamieson.

 

Ma qual è lo scopo dell’Istituto e chi porta avanti questi terribili esperimenti? E perché? Queste domande avranno risposta leggendo il romanzo, così evitiamo di finire nello scivoloso territorio degli spoiler. Quello che possiamo dire è che King ritrova in questa storia la verve dei giorni migliori, specie nel tratteggiare le dinamiche tra ragazzini costretti a fronteggiare una situazione da adulti e nel costruire la cittadina di provincia di DuPray.

 

Forse chi ha amato It e i romanzi-mondo di King non troverà un approfondimento altrettanto mastodontico nel descrivere i vari personaggi, ma non è detto che sia un male. A volte, infatti, un difetto dell’autore di Portland è proprio quello di farsi prendere un po’ troppo la mano con le descrizioni e con qualche lungaggine.

 

L’istituto, in conclusione, non è il capolavoro di King ma è un romanzo di quelli cuciti apposta per il suo lettore affezionato. C’è la suspense, c’è il mondo dei ragazzini, quelli che ancora non hanno rinunciato a credere all’impossibile come gli adulti, ma ci sono anche i sentimenti e l’ottimismo tipici di certe storie kinghiane. E, soprattutto, c’è la possibilità di versare anche qualche lacrimuccia, cosa non da poco.

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