Le consapevolezze ultime
Allontanandosi prima con la mente che con il ventre da una cena mondana tanto esilarante quanto amara, benché esibita come fastosa e gustosa da una consorteria di commensali impuniti per statuto, e passando per un ricordo d’infanzia dell’inossidabile Barbino di “Seminario sulla gioventù”, attraverso se stesso Aldo Busi ci racconta le tragedie di un mondo in cui, insieme allo sforzo di nascondere l’ipocrisia, si è perso anche l’ultimo barlume di compostezza etica: il patto sociale è stabilito da chi ha potere e denaro sufficienti per calpestarlo. In una società popolata da uomini e donne così arroganti da pretendere di esserne i protagonisti disperati e interessanti, dove si comunica a occhiate o facendo l’occhiolino e la lingua è corrotta non meno dei costumi, tutto contribuisce ad alimentare lo stolto chiacchiericcio che copre – anzi permette di non ascoltare – persino una drammatica richiesta d’aiuto lanciata dal cuore del Mediterraneo. Voce di Roberto Roganti https://api.soundcloud.com/tracks/564927813
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Recensione a cura di Angelo Mascolo

Aldo Busi come Curzio Malaparte? E, al contrario di quest’ultimo, ancien prodige di un regime talmente vecchio da non sopportare nemmeno più la propria immagine allo specchio? Potrà sembrare un accostamento ardito quello appena proposto. In realtà, Aldo Busi (giornalista e soprattutto polemista) ha nei riguardi del potere attuale lo stesso approccio che Malaparte aveva con il regime fascista. Un atteggiamento cioè critico, contestatario. Ma, in più rispetto al Curzio enfant prodige, Busi calca una nota – anzi un accento – decadente che rende partecipe il lettore del disfacimento imboccato dal nostro tempo. Questa premessa si è resa necessaria dal momento che prima di oggi non avevo mai letto nulla di questo autore. Mi verrebbe da dire che non mi sono perso molto, ma sarebbe un giudizio troppo superficiale. Per questo, vengo subito al libro in questione. Ne Le consapevolezze ultime ci ho visto un po’ di cose già viste. Il tema della cena alto borghese presente in tanta letteratura e nel cinema d’autore francese degli anni ’70 (si guardi a mo’ di esempio al grottesco e graffiante «Il fascino discreto della borghesia» di Luis Buñuel) che diventa occasione e pretesto per parlare e sparlare di un mondo vacuo e autoreferenziale; gli scenari corrotti e deviati di una borghesia imprenditoriale (bresciana nel caso specifico) vicini eppure così tremendamente distanti dall’ultimo, profetico «Petrolio» di Pasolini; la prosa volutamente artata, senza punteggiature (imitazione dello stile Joyce) che diventa uno strumento per parlare di tutto e non parlare di niente alla fine. Un merito, però, lo ha questo libro: il tenere insieme tutte queste cose con una vis verbale e magniloquente di cui Busi certamente non difetta. Tuttavia, per essere, come si legge dalla copertina, il congedo di un uomo da un mondo che disprezza (e che pure continua a frequentare) mi sembra oggettivamente pochino.

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