Voglio iniziare questa recensione con un aneddoto. E l’aneddoto è il seguente: subito dopo aver letto La settima lapide, corsi da Igor De Amicis per chiedergli come avesse fatto a descrivere in maniera così minuziosa e vivida le atmosfere del carcere. Igor mi fece presente che lui, nelle carceri, ci lavora come comandante, ed ecco spiegata quella sensazione che si prova quando si legge un libro scritto da qualcuno che sa. Avete presente la sensazione di essere dentro la storia e quell’intensità che solo chi conosce un luogo come le proprie tasche può trasmettere? Ne La settima lapide succede proprio questo: ci si sente il mondo delle carceri addosso.
Il romanzo inizia in un piccolo cimitero di provincia, in cui vengono trovate sette fosse con sette lapidi. In una delle fosse giace un cadavere sgozzato. Le altre sono vuote, ma ogni lapide riporta un nome. Tra i nominativi c’è anche quello di Michele Vigilante, detto Tiradritto, boss temuto e rispettato che, dopo anni di carcere, esce per buona condotta.
Vigilante ha molti fantasmi nel proprio passato e il mondo che lo attende fuori dalla cella è un luogo cupo, violento, in cui è la vendetta a muovere le cose. In un gioco sapiente di flashback e in un’alternanza tra mondo esterno e carcere, in cui le sbarre non sono solo materiali, Igor De Amicis ci spinge nel baratro dell’animo umano, e lo fa senza darci il tempo di prendere fiato.
Accanto a Vigilante, sfilano una carrellata di personaggi mai banali, che si muovono in una Napoli dalle tinte fosche, dove amicizie e luoghi sbagliati possono portare dritti in una fossa scavata di fresco. Con uno stile pulito e accattivante e una forte tensione narrativa, Igor De Amicis ha saputo dare un perfetto affresco di un mondo che conosce bene, offrendoci un thriller fuori dai soliti canoni, a cui le definizioni di genere paiono stare strette, e proprio per questo degno di grande attenzione.