La casa delle tenebre
Il primo horror di Jo Nesbø. Un bosco. Una casa. Una chiamata. E un monito: quando il telefono squilla, non rispondere… Hai il coraggio di entrare nella casa delle tenebre? Dopo la tragica morte dei genitori in un incendio, il quattordicenne Richard Elauved viene mandato a vivere con gli zii nella remota cittadina di Ballantyne, guadagnandosi presto, tra i nuovi compagni di scuola, la reputazione di asociale ed emarginato. Così, quando uno studente di nome Tom scompare sotto i suoi occhi, nessuno crede alla sua versione dei fatti: è stata la cabina telefonica ai margini del bosco a risucchiare Tom nel ricevitore e a farlo svanire nel nulla. L’unica a dargli retta è Karen, una ragazza che incoraggia Richard a seguire gli indizi su cui la polizia si rifiuta di indagare. Quando, poco dopo, un altro ragazzo sparisce, Richard dovrà dimostrare la sua innocenza fare i conti con la magia oscura che avvolge Ballantyne e ne minaccia la distruzione. Un libro teso e avventuroso dalla prima all’ultima pagina. Una rivisitazione dei romanzi classici dell’orrore per mano del re del crime Jo Nesbø.
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C’era molta attesa attorno a La casa delle tenebre, primo romanzo horror del mago del giallo norvegese, quel  Jo Nesbø che – grazie al personaggio di Harry Hole – ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.

La casa delle tenebre, tradotto da Eva Kampmann, è un romanzo che si avventura nel genere horror poponendone tutta una serie di cliché. Questo almeno all’inizio, visto che poi le sorprese non mancheranno e cogliamo l’occasione per avvisare i lettori che in questa recensione gli spoiler non mancheranno. Se non volete dunque rovinarvi i colpi di scena, vi invitiamo a leggere solo la prima parte.

La trama è quella di tanti horror.
Richard Elauved è un adolescente che ha perso i genitori in un misterioso incendio e viene affidato agli zii. La coppia vive in un paesino di provincia, Ballantyne. Va detto che l’ambientazione è piuttosto nebulosa, non lasciando intendere precisamente dove ci troviamo, anche se si può supporre una provincia all’americana nei toni di Stephen King.

Richard è il tipico ragazzino che fatica a inserirsi nella nuova realtà. Emarginato dai compagni e riottoso ad abituarsi ai ritmi del piccolo paese, si costruisce una solida fama di asociale, ai limiti del bullismo. Solo Tom, un compagno di classe gli dà retta, assieme a Karen, ragazzina a sua volta peculiare che gli è amica.

Il primo snodo è la scomparsa di Tom, proprio mentre è in giro con Richard. Assistiamo alla scena in puro stile splatter: il giovane viene divorato da un telefono di una cabina pubblica mentre i due stanno facendo il più classico degli scherzi telefonici. Peccato che il nome scelto a caso nel tomo sia proprio quello di una sorta di entità maledetta di Ballantyne, che guarda caso è pure il proprietario della casa delle tenebre del titolo.

Ovviamente, nessuno crede a Richard, tranne Karen. La ragazza lo incoraggia nelle sue indagini private, mentre la polizia – già dubbiosa sulle sue facoltà – si convince che il giovane abbia qualcosa che non va dopo la scomparsa di un secondo amico, trasformatosi – a dire di Richard – in una magicicada, tipo particolare di cicala.

La prima parte scorre via abbastanza piacevolmente. Nulla per cui gridare al capolavoro, intendiamoci. Sembra di essere da una parte in una sorta di It di Stephen King in versione (molto) depotenziata, dall’altra l’atmosfera è quella di un romanzo horror per ragazzi.

A questo punto, per forza, dobbiamo accennare qualche spoiler.
Sì, perché La casa delle tenebre è diviso in tre parti, un gioco narrativo che dovrebbe lasciare il lettore con la bocca aperta, ma che rischia più di farlo sentire un po’ truffato per i troppi rovesciamenti a tradimento. Nella seconda parte scopriamo infatti che, se ci eravamo sentiti come in un romanzo per ragazzi, ci avevamo preso.

Richard è infatti ora un adulto, uno scrittore di successo che torna a Ballantyne per una di quelle assurde rimpatriate scolastiche all’americana. No, non una pizza tra amici un po’ imbolsiti come capita da noi, ma una roba per cui si affitta la palestra della vecchia high school per giorni e si riaprono le ferite dell’adolescenza. Una situazione che, a livello narratologico, porta di solito a qualche tragedia.

E la tragedia, in questo romanzo, è doppia e, per così dire, interattiva.
La prima è quella compresa nella trama, per cui Richard scopre che la rimpatriata non è altro che la scusa dei suoi vecchi compagni per vendicarsi del suo comportamento da ragazzo. Tutta la prima parte, e qui sta la seconda tragedia, quella che ci sembrava una storia per ragazzi, era effettivamente il romanzo per ragazzi con cui lo scrittore ha guadagnato la fama. Un trucchetto narrativo non proprio pulitissimo, ma a Jo perdoniamo questo e altro.

Questa fase del romanzo scava di più nella psicologia e si abbandona a una serie di passaggi onirici che appesantiscono un po’ la trama.

Manca ancora la terza parte, quella che chiarisce tutti i fili lasciati pendenti. Ed è qui che  Nesbø si fa prendere un po’ la mano dalla voglia di stupire. Richard Elauved si trova in realtà in manicomio, e le prime due fasi non sono altro che suoi deliri, pur basati su un vero trauma che – almeno quello – non sveliamo.

Insomma, ce n’è abbastanza – Vostro onore! – per avanzare l’ipotesi che il patto non dichiarato tra autore e lettore venga tradito. Noi lettori, infatti, sospendiamo l’incredulità per la durata del romanzo, è per questo che siamo dispostissimi a credere in un telefono che divora ragazzi e in uno studente che si trasforma in cicala. Quella che viene meno è però la fiducia, soprattutto quando scopriamo che per due terzi abbiamo letto storie che esistono solo nella mente del protagonista.

Insomma, non sempre il trucco alla I soliti sospetti riesce, e questa volta Jo Nesbø – almeno nella mia opinione – esagera un po’, finendo per deludere.

Peccato, perché le atmosfere blandamente kinghiane della prima parte e alcune trovate – aspettate di scoprire il vero significato di Richard Elauved – meritano ampiamente la sufficienza. Nel complesso, però, possiamo definire il primo contatto di Jo Nesbø col mondo dell’horror un esperimento non riuscito per troppo virtuosismo.
Provaci ancora, Jo!

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