Recensione a cura di Manuela Fontenova
Come si può vivere una vita fingendo di essere un’altra persona? Quanto pesa sul cuore la verità che si nasconde da settant’anni? Si va avanti, semplicemente grati di essere vivi. Perché in questo libro si parla di una sopravvissuta, una ragazzina normale, con sogni e progetti futuri, catapultata improvvisamente nell’inferno dei campi concentramento: Auschwitz prima e Ravensbrück poi.
Malika ha solo quindici anni quando viene strappata alla sua famiglia, la sua colpa è quella di essere di etnia rom e di essere nata negli anni del Nazismo. Imparerà a sue spese che il pericolo per lei non viene tanto dalle SS quanto dalle stesse compagne di prigionia: nel campo gli zingari sono disprezzati, maltrattati dai prigionieri, e sarà proprio questo ad offrirle la possibilità di diventare un’altra. Per un banale scambio di abito Malika cessa di esistere, diventa Miriam Goldberg, ebrea. Un’identità che non abbandonerà più, un’assicurazione per il suo futuro.
Alla fine della guerra infatti la giovane viene accolta in Svezia, un paese che impara ad amare da subito, un paese accogliente, gentile, che si prende cura di lei, ma i rom non sono ben accetti, anzi sono quasi perseguitati, il pregiudizio appanna ogni possibilità di redenzione, non c’è modo di togliersi di dosso lo sguardo diffidente della gente. C’è un’unica possibilità: continuare a fingere.
Ma arriva un momento nella vita di Miriam in cui gli argini della memoria non riescono più a tenere il fiume dei ricordi, e il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, la verità trova finalmente la sua via d’uscita. Sarà Camilla, la nipote, a raccogliere i racconti della vecchia nonna, e saremo noi lettori, che grazie alle sue parole, attraverseremo più di settant’anni di storia, di vita e di sofferenza.
Negli ultimi anni di romanzi simili ne sono stati scritti parecchi, ma Io non mi chiamo Miriam è diverso da tutti gli altri. Sappiamo che i campi di concentramento “ospitavano” ebrei in primis, ma anche prigionieri politici, dissidenti, omosessuali; insomma le “colpe” che aprivano le porte della prigionia erano molteplici. Non sapevamo, almeno io non ero al corrente, che ad Auschwitz c’era un settore per gli zingari, che il popolo rom si ribellò alla ferocia dei tedeschi che cercarono di eliminarli confinandoli nel campo, e ci riuscirono: tremila persone vennero uccise in una sola notte.
Miriam non è vittima solo dei nazisti, è prima di tutto vittima del pregiudizio e come dicevo prima, i nemici più subdoli erano proprio gli altri prigionieri: sarebbe sopravvissuta se avessero saputo che non era ebrea? Probabilmente no, come probabilmente non sarebbe potuta rimanere in Svezia dopo la guerra, sposarsi e ad avere una famiglia ed una vita rispettabile.
Ecco secondo me un punto di forza del libro, gettare una luce su una parte della storia poco conosciuta; personalmente amo le letture che mi aiutano ad approfondire e a conoscere avvenimenti meno noti, quelli che a scuola non si studiano, che rimangono esclusi dalla memoria collettiva.
Mi piacerebbe farvi degli esempi, citando dei titoli che negli anni hanno colmato alcune delle mie lacune storiche, si tratta di romanzi che raccontano di genocidi, di soppressione della libertà, di ferocia inaudita. Il primo che mi viene in mente è La masseria delle allodole di Antonia Arslan, che ci racconta del genocidio del popolo armeno del 1915. Le stanze illuminate di Richard Mason ci riporta invece ai tempi delle Seconda Guerra Boera combattuta in Sudafrica a fine ‘800, dove i campi di concentramento furono ampiamente usati per imprigionare civili. Penso anche ai campi di prigionia in cui furono confinate le famiglie nippo-americane dopo l’attacco di Pearl Harbor, e ce ne parla Jamie Ford nel suo bellissimo romanzo Il gusto proibito dello zenzero. Durante la Seconda Guerra Mondiale furono numerosi i campi di concentramento giapponesi in Cina e in uno di questi fu reclusa la protagonista del romanzo di Frances Osborne La stanza delle spezie. Per finire le terribili deportazioni nei Gulag staliniani, testimoniate da Ruta Sepetys con Avevano spento anche la luna.
I libri che ho nominato, al di là dell’elemento romanzato, traggono ispirazione da fatti accaduti, aiutano a conoscere diverse realtà. Più o meno è quanto succede qui, Majgull Axelsson ha scritto un romanzo ricco di spunti storici, ha raccolto testimonianze, ha visitato i luoghi e poi ha imbastito una storia dando vita ad un personaggio che ha fatto nascere, crescere ed invecchiare nella trama che ha tessuto.
La narrazione ha un andamento molto lento, Miriam si prende tutto il tempo necessario per aprire il suo cuore alla nipote. I racconti seguono i ricordi che affiorano nella sua mente, attraverso flashback e sogni ad occhi aperti, ripercorriamo la sua vita. La paura iniziale, il distacco dalla famiglia, le atrocità della prigionia e una paura ancora più grande: come vivere da donna libera? Come vivere sapendo di non essere ciò che dici di essere? Perché non raccontare tutto?
“Non si può parlare di tutto! Devi capirlo. Non se si hanno ottantacinque anni e si è della razza sbagliata e si ha vissuto sulla propria pelle l’intero secolo! In questo caso non si può parlare di tutto.”
Io non mi chiamo Miriam è una lettura impegnativa, carica di dolore, di vita. Una lettura che insegna ma che allo stesso tempo contraddice la storia, mostrando come nel corso dei decenni, l’uomo, i popoli, non abbiano imparato nulla dal passato!