Coloro che ancora considerano “minore” la letteratura di genere dovrebbero sbirciare i romanzi di Derek Raymond, “inesorabile esistenzialista del noir” (come l’ha definito il The New York Review of Books). Un autore capace di rielaborare la crime fiction raffinandone i connotati e rivendicandone la dignità letteraria, come se a occuparsi di thriller fossero scrittori del calibro di Sartre, Camus o Ionesco.
“Il museo dell’inferno”, quinto volume della serie Factory, pubblicato nel 1993, un anno prima della sua scomparsa, è un viaggio perturbante nella mente sadica e orrifica di un serial killer che affetta le sue vittime, riducendole a pezzettini, e poi le ricompone secondo un disegno macabro e aberrante.
Un rituale artistico degno di un maestro dell’orrore.
Nella prima parte del romanzo si snoda il racconto in prima persona presentato dal punto di vista dell’omicida, scopriamo con crescente inquietudine il suo modo ambiguo di sedurre donne mature non più seducenti e di risucchiarle in una alcova infernale che assume le sembianze di squallidi appartamenti di periferia. Sono le pagine di maggior spessore, le più incalzanti, potenti, capaci di trascinare il lettore attraverso un vortice di soffocante tensione, di ansia palpitante, fino a instillare quasi un senso di malessere e occulto disagio.
Nella parte centrale si snodano le indagini e conosciamo un sergente della sezione “Delitti irrisolti” che si ritrova per caso a riannodare i fili logori che riconducono sulle tracce del nostro temibile assassino.
A dir la verità, a parte qualche fisiologico ostacolo e incidente di percorso, non sarà poi così difficile per il nostro eroe arrivare a capo dell’indagine e arrestare il sanguinario colpevole.
In quest’ottica “Il museo dell’inferno” non concede elaborate strategie alla Sherlock Holmes e la scoperta del “tipo strano” avviene con una certa confortevole gradualità, frutto sì di acute deduzioni ma senza esagerare.
Sparatorie rocambolesche, arresti sbagliati, incredibili colpi di scena, depistaggi e tutto il campionario classico dei thriller internazionali? Non pervenuti.
La terza parte del romanzo, a mio parere la meno coinvolgente, è incentrata su un incredibile e inesorabile flusso di coscienza del nostro serial killer che veste i panni dell’intellettuale psicopatico e anticonformista, quasi che Derek Raymond si divertisse ad “assolverlo” (in senso lato), scaricando la colpa verso una società complessa, ipocrita, incapace di garantire il traguardo della felicità a tutti e quindi generatrice perversa di mostri.
In queste pagine conclusive emerge, con tutta la sua prepotenza, la componente “noir” del libro.
Non è un romanzo perfetto (nel caso lo fosse stato, Raymond l’avrebbe sicuramente ridotto a brandelli di carta) e proprio per questo rimane un piccolo cult da non perdere.