Il colibrì è un uccelletto tra i più piccoli esistenti che ha l’abilità di poter restare quasi immobile a mezz’aria grazie al rapidissimo battito delle ali e che si ciba del nettare dei fiori. La straordinaria mobilità gli consente, oltre a restare fermo nell’aria, addirittura divolare all’indietro. Queste caratteristiche sono prese a pretesto da Sandro Veronesi per intitolare il suo romanzo “Il colibrì”.
Il colibrì è il soprannome di Marco Carrera il protagonista dell’opera che gli è stato dato da bambino
per una carenza dell’ormone della crescita che lo aveva mantenuto piccolo, seppure bello e aggraziato. Ma questo soprannome finisce per assumere negli anni anche un altro significato. La vita Marco
Carrera è di perdita e di dolore. Il passato sembra vincolarlo inesorabilmente, ma lui trova la forza di non precipitare il suo battere d’ali frenetico che lo associa al piccolo uccello non
lo fa precipitare. Riesce ogni volta a risalire con le sue acrobazie esistenziali. Ne comprendiamo il significato in una lettera che gli scrive Luisa Lattes, la donna amata fin da ragazzo e con la quale manterrà per tutta la vita un fitto epistolario: “tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro.”. Questo è un romanzo sul dolore e sulla sopravvivenza al dolore. Attorno al protagonista Veronesi traccia, con capacità sublime, una galleria di personaggi indimenticabili che emozionano e coinvolgono il lettore. Come su una scacchiera ove ogni pezzo ha una sua caratteristica e un suo ruolo essenziale per condurre a termine la partita. Il tempo si muove come il meccanismo di un orologio dai primi anni 70 al il nostro futuro prossimo, nel quale grazie al movimento frenetico del nostro colibrì, sorgerà “L’uomo nuovo”. Vorrei riportare alcuni sintetici giudizi con cui il mondo artistico e giornalistico si è espresso su questo romanzo: «Veronesi racconta con sapienza la crudeltà del vivere e, inevitabilmente, del morire soffrendo, ma lascia una porta aperta che riguarda chi verrà dopo a portare la pace e il benessere, un’età dell’oro, in un mondo finalmente ibrido e affratellato» – Robinson« Di questo libro si dirà che è un capolavoro» A questo punto ritengo doverose due parole sull’autore considerato uno dei maestri della tecnica narrativa della “digressione” con cui destruttura una trama superando il concetto della narrazione cronologica. Certo, non è la prima volta che molti scrittori hanno utilizzato la digressione, ma questo libro è capace di farlo, passando da un tempo all’altro, da un’età all’altra, mantenendo sempre vivo e ordinato lo scorrere degli eventi. E lo fa senza annoiare con una metodica sperimentale che passa attraverso l’utilizzo di tutti i mezzi di comunicazione possibili e applicabili all’evoluzione storica in corso. Ed è così che una volta leggeremo delle lettere, altre volte delle mail, altre ancora ci sarà uno scambio di sms o lunghe o brevi telefonate, in cui una ambientazione è come se si soffermasse per un istante, lasciando che se ne inserisca un’altra in una sorta di collage che mantiene sempre solido l’impianto principale, senza che il lettore si perda in queste digressioni.
Già vincitore del premio Strega nel 2006 con “Caos Calmo”, forse il suo capolavoro più assoluto che merita una recensione a parte, e a numerosi riconoscimenti che ne hanno accompagnato il
Percorso artistico, tra cui il premio Campiello 2000 ed il Viareggio 2000 con “La forza del passato”, Con “Il colibrì” vince nuovamente lo Strega nel 2020.
Un romanzo potentissimo che incanta e commuove sulla forza struggente della vita.
Nelle due parole della prefazione si può già comprendere quello che sarà il senso del romanzo: Non posso continuare Continuerò. (Samuel Becket)
Non voglio dilungarmi sulla trama del libro, togliendo il piacere di leggerlo e su cui ho bissato la lettura per assorbirne l’essenza.
Solo un breve cenno sull’incipit, da cui prende il via la storia. Marco Carrera, oculista riceve la visita imprevista dello psicanalista della moglie, “calvo e barbuto”, come nel migliore stereotipo di questa figura, che viene a sconvolgere la sua vita con una notizia inaspettata: “Mi dispiace dirglielo ma il suo matrimonio è finito da un pezzo, dottor Carrera.”. Dalla vivacità di queste prime pagine, si sarebbe indotti a ritenere che si tratti di un romanzo “leggero”. Di quelli da poter leggere in vacanza, sotto un ombrellone, tra un bagno in mare e l’altro. Dopo queste prime pagine si comprende invece che non è una storia da vivere con leggerezza quella in cui Veronesi ci conduce. Il protagonista appartenente ad una tranquilla (all’apparenza) famiglia della borghesia fiorentina, anche se non mancano tradimenti da partedella madre con numerose avventure extraconiugali, con cui compensava la necessità di un amore fisico, ormai solo un ricordo e che sopporta il marito, accondiscendente e tranquillo come un tumore che non si può curare. Ha un fratello, Giacomo che ama. e una sorella, Irene “che non lo voleva mai con sé, come non voleva nessuno, del resto, perlomeno tra i membri della famiglia, ragion per cui a diciott’anni era già diventata una croce da portare”. Il suicidio di Irene sarà il primo dei dolori devastanti della vita di Marco. Una vita costellata di difficoltà, dal matrimonio con Marina pieno di falsità e tradimenti, all’amore mai consumato con Luisa Lattes una vicina della loro villa di Bolgheri, a cui rimane legato per anni attraverso un fitto scambio epistolare, fino alla morte dell’amata figlia Adele. Ogni pagina, anche quelle più serene che raccontano la giovinezza di Marco, sono intrise di nostalgia per l’idea che le cose spesso vadano in modo diverso da come si sarebbe desiderato, del rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.In mezzo alle tempeste e agli affanni della sua esistenza, Marco cerca di trovare un punto fermo, di mantenersi immobile. Dice Veronesi che questo è il primo personaggio dei suoi romanzi a non avere nulla in comune con lui, fautore dell’“avanzare piano” e non certo dell’immobilità. Eppure, in ciascuno di noi, almeno in qualche momento della vita, si è nascosto un Marco Carrera, un tentativo disperato e faticosissimo di opporsi al cambiamento, di fare in modo che tutto rimanga com’è. Così come a tutti è capitato di sentirsi come Adele Carrera che, da bambina, aveva comunicato a suo padre di avere “un filo [che] partiva dalla sua schiena per andare a finire nella parete più vicina, sempre. Per qualche ragione nessuno lo vedeva, e quindi lei era costretta a stare sempre attaccata al muro, per evitare che la gente ci inciampasse o ci rimanesse intrappolata.” Un filo che ci costringe a non allontanarci mai troppo dalle strade già battute e dalle nostre certezze, facendo attenzione che nessuno intorno a noi inciampi. Solo alla fine del romanzo Veronesi concede uno spiraglio. Scrive Marco a Luisa “Io ora ho una missione da compiere, che dà senso a tutto quello che ho avuto e non ho avuto, compresa te: allevare l’uomo nuovo, e l’uomo nuovo è la bambina di otto anni che dorme sotto questo tetto”. Si tratta della figlia di Adele, la piccola Miraijin. Una sorta di prodigio, una bambina splendida che “incanta le maestre” e “fa sempre la cosa giusta” e che vediamo crescere e diventare bellissima intelligentissima e impegnatissima. Tutto un po’ troppo superlativo per il povero lettore, a cui sarebbe bastato, per tirare un sospiro di sollievo, lo stupore un poco interdetto di Marco di fronte alle gioie inaspettate che gli ultimi anni della sua vita gli portano: “Ormai la vita era andata com’era andata, non gli sarebbe mai passato per la testa di migliorarla proprio alla fine.”