IL CASO KARMAL
Base Snow, Afghanistan. Nel più isolato e vulnerabile degli avamposti italiani in Afghanistan viene ritrovato il corpo di Nadia Karmàl, giovane addetta al lavoro nelle cucine. Incaricato dell’indagine è Alì Zayd, poliziotto e mediocre portaborse di un politico locale. Coinvolto in una rete di piccola corruzione e costretto a ubbidire a superiori ai quali non interessa trovare l’assassino della donna, ma sfruttare l’occasione per costruire una spregiudicata operazione politica, Alì segue i pochi indizi di cui dispone, nella Kabul dei quartieri degradati e dei locali alla moda della nuova borghesia, nei bar eleganti di Herat e nelle tante basi della Coalizione, nei villaggi desertici del Sud o fra le montagne del Wakhan. Dapprima procede controvoglia, poi con curiosità, infine con passione, perché scopre che Nadia era una donna piena di risorse e perché l’inchiesta porta alla luce un Afghanistan democratico che la sua generazione ha rimosso ma non rinnegato. A un passo dalla verità, dovrà fare una scelta: certe indagini non finiscono se non hai capito chi era la vittima. Costruito attorno a due protagonisti – un uomo ferito, costretto a confrontarsi con la vergogna crescente di un’esistenza opaca vissuta nell’ombra, e una ragazza che brilla anche da morta, crescendo pagina dopo pagina e illuminando i tasselli dell’indagine – “Il caso Karmàl” ci parla con forza della corruzione politica e della condizione femminile di un paese in cui migliaia di uomini combattono per tener fede alla retorica nazionalistica dell’Afghanistan «tomba degli imperi», e migliaia di donne resistono in silenzio, sognando un paese che a tutto assomigli, meno che a una tomba. “Il caso Karmàl” non è solo un «giallo». Ci racconta sì di una ragazza uccisa e del poliziotto che ne cerca l’assassino – ricostruendo moventi e dinamiche criminali in un Afghanistan con le truppe straniere in partenza e i nuovi padroni Talebani già sull’uscio – ma ci parla soprattutto di una vittima più silenziosa e universale: un paese e un popolo sconvolti da una guerra infinita, fatta di bombe e sopraffazioni, di povertà e di droga, di crimini i cui moventi non sono chiari e per cui nessuno cercherà i colpevoli.
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Che dire, recensire quanto ci troviamo di fronte non è facile, in quanto: abbiamo letto 168 pagine di un noir, ma allo stesso tempo siamo stati messi di fronte non solo ad una sorta di guida turistica dell’Afghanistan, di ieri e di oggi, ma nello specifico su di un tema di stringente attualità: le missioni militari, che l’occidente, Italia compresa, portano avanti nel nome dell’esportazione della democrazia con i morti “ per errore “. 11 settembre 2001, attacco alle torri gemelle negli Stati Uniti; intervento, conseguente, in Afghanistan nella logica della cosiddetta “ guerra asimmetrica “ per cui si ha l’uso della forza militare contro un metodo, il terrorismo in questo caso. Ovviamente quanto scritto avrebbe bisogno dei necessari approfondimenti, ma non è, e non può essere questo il luogo giusto. Per cui entriamo all’interno di questo noir. Un’indagine condotta dal classico portaborse di turno, Alì, rispetto alla morte di una donna, afghana, in una base militare italiana. Una base in via di dismissione, visto l’imminente ritiro delle truppe straniere,  in seguito agli accordi, scritti e firmati con i Taliban, con il loro “Ministero per la promozione della virtù e la soppressione del vizio” e l’interpretazione rigida della sharia. Alì, un quasi sbirro afghano, con 4 anni di accademia per ufficiali a Kabul, 4 mesi di addestramento con il reggimento Tuscania; con tecniche investigative acquisite grazie ai corsi di addestramento ricevuti, (dall’uso delle impronte digitali alle intercettazioni, alle verifiche sui movimenti finanziari ) che si sommano alle condizioni specifiche dei luoghi in cui ti trovi ad avere a che fare e che quindi non hanno alcun valore. Come è dimostrato dal modus vivendi dell’ ”onestà “dello sbirro afghano: “ chiudi un occhio e ti lasceranno vivere in pace “. A conferma di quanto scrivevo precedentemente, nello scrivere di questo noir, è impossibile scindere aspetti che apparentemente sembrano slegati l’uno con l’altro,ed invece sono legati strettamente. La cosiddetta missione di pace italiana, con la base Snow, nel Gulistan, avamposto nel centro del conflitto; a quanto avviene tra gli afghani addetti alla “ sicurezza “, come ad esempio il fenomeno della diserzione, che nella sostanza serve, gonfiando i dati reali rendendoli ufficiali, per avere aiuti dai finanziatori internazionali; i cantieri per le caserme che sono in realtà il vero affare, ecc…..; alla descrizione della quotidianità afghana, i mercati con le baracche di legno; le ceste di plastica colme di frutta secca, il brusio continuo ed insistente, le polpette di carne e cipolla ed i soldati in mimetica, gli sfaccendati e gli occidentali, che nonostante gli anni ‘60/70 siano ormai passati e con loro le tappe di rifermento per la ricerca dei paradisi artificiali, sono sempre lì. La corruzione, e la sua filiera, è l’elemento non solo che contraddistingue il libro, ma che contraddistingue l’Afghanistan; il flusso di denaro, i traffici illegali nel corpo di polizia, la mafia del legno, le merci non fatturate, i furgoni occidentali rubati con le targhe fasulle, autisti con patenti false, mazzette che risolvono eventuali problemi; un paese che ha linea di divisione non tra onesti e corrotti, ma tra corrotti e corruttori. Ma l’Afghanistan è anche caratterizzato dalle catene montuose, le coltivazioni di papavero, l’attività antigovernativa, le strade disseminate di mine, con gli abitanti divisi tra due sentimenti a scelta: l’odio e la paura; il degrado di una città con 5 milioni di abitanti; case senza luce ed acqua; l’immondizia abbandonata, i campi profughi; i signori della droga. Un Afghanistan che riporta alla luce quanto di “ occidentale “ esisteva negli anni ’50, a partire dal sentirsi afghani e non tagiki o pashtun. Ed è a questo punto ci immergiamo quasi in un trattato di geopolitica con il riferimento ai carri armati sovietici, alla fine della monarchia, al Partito Democratico del Popolo Afghano e gli interrogativi conseguenti sul perché le riforme, dai diritti per le donne, alla terra ai contadini; alla cancellazione del debito, l’energia a basso costo, la garanzia della fornitura dell’acqua e dei servizi sanitari, i trasporti, l’edilizia residenziale per i dipendenti pubblici, l’accesso, sovvenzionato, ai beni di consumo delle cooperative statali…  hanno fallito, l’Organizzazione Donne Democratiche dell’Afghanistan, perché ricordare come eravamo è una delle cose più rivoluzionarie in Afghanistan visto che Tagiki, Beluci, Turkmeni ecc… convivano tranquilli, perché Kabul era un grandioso minestrone di colori, etnie, lingue, costumi, venditrici di hennè ecc ….., alle ex fabbriche dell’epoca sovietica oggi adibite a mercato delle bestie o arena per combattimenti fra animali Ma se c’è un dato che emerge su tutti gli altri, è la considerazione/condizione della donna che non contano assolutamente nulla, picchiate in famiglia,sfregiate dal vetriolo e violentate grazie al codice di condotta ULEMA; la lotta, in semicandestinità, della dissidenza, come RAWA, per i diritti delle donne, e per questo odiate dai fondamentalisti, bambine, rapite, vendute per divenire mogli, per pagare debiti, tornate in famigliae ripudiate essendo lo stupro un disonore;un paese nel quale 2000 donne si danno fuoco non avendo davanti a sé alternative di vita; i nuovi padroni della città che si mangiano oltre ai soldi della ricostruzione anche lo spazio urbano a discapito delle catapecchie dei poveri e delle case storiche. Ed è una donna, ed il suo decesso,avvenuto in una base di un esercito “ occupante “ con le possibili conseguenze incontrollabili, è al centro de “ Il caso Karmal, “ con le possibili opzioni dell’evento: 1) morta per paura; 2) morta per overdose, in un paese in cui chiunque può raffinare e con 3 milioni di tossicodipendenti; 3) omicidio. La guerra e l’occupazione con l’imposizione del modello culturale occidentale ed il nesso, inscindibile, tra popolo e potere; i contractors, i mercenari degli anni 2000. Sì, perché è bene dirlo, che in questa “ esportazione di democrazia “ l’Italia ha avuto 53 morti, il più alto numero dalla fine della seconda guerra mondiale. Forse abbiamo perso il filo che ci ha condotto fin qui, l’omicidio su cui indaga Alì è una indagine che da fastidio a molti, ma non poteva essere diversamente di fronte allo strapotere dell’economia, all’arroganza della politica.

 

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