Recensione a cura di Gaudenzio Schillaci
Il Zucca, al secolo Emilio Zucchini, è l’oste di una di quelle tipiche trattorie che chiunque è stato almeno una volta a Bologna riconoscerebbe in un battito di ciglia. Baluardo della cucina tradizionale cittadina, quando nel suo ristorante, il “Vecchia Bologna”, una cliente subisce una reazione allergica inizia per lui una nuova avventura investigativa, legata a doppio filo con qualcosa che sta succedendo da un’altra parte della città, al Duomo, su via Indipendenza (da non confondere con la Basilica di San Petronio, la Bologna raccontata tra queste pagine non è certo quella turistica che confonde le due Chiese), dove un poco di buono, tale Mirko Gandusio – conosciuto anche con il nome de “Grande Gandhi” – si rende protagonista di un furto ben oltre i confini che delimitano il sacro dal profano.
Filippo Venturi, autore di questo “Gli spaghetti alla bolognese non esistono”, è uno scrittore – bolognese davvero a differenza della ricetta citata nel titolo – dalla penna fine e che è riuscito nell’impresa, non di poco conto, di sintetizzare e mescolare insieme la tradizione della scrittura umoristica italiana (mi vengono in mente certi lavori di Achille Campanile, giusto per citare qualcuno, ma anche un po’ il Fantozzi dei romanzi di Villaggio, specie nella figura del Gandusio, un personaggio incastrato in meccaniche ben oltre la sua portata e un uomo dalle poche qualità e tutte superflue) con lo spirito innovativo della black comedy di stampo anglosassone, sfumando tutta la vicenda con litri e litri di Lambrusco di quello buono. Il romanzo scivola con facilità nella lettura, regalando spesso sorrisi e senza cadere mai in rallentamenti eccessivi. Venturi gioca con maestria a slegare e a riallacciare i fili della storia e dei suoi personaggi, divertendosi persino a prendere in giro, con l’affetto che si riserva ad una madre un po’ troppo invadente, la sua stessa lingua e la sua città.
Probabilmente nel delineare la figura del Zucca, il vero e proprio protagonista della storia, molto lo ha aiutato condividerne la stessa professione, alla luce del fatto che Venturi stesso dirige un’osteria, ma di certo il suo alter ego letterario trova forza, sulla pagina, soprattutto nel doversi rapportare con il Gandhi, in una dicotomia che funziona benissimo e che rappresenta bene la doppia anima della città (la Bologna laboriosa e sempre sul pezzo, anzi, per dirla in madrelingua cittadina, sempre “in bolla” e quella tendente ad un certo autocompiacimento e alla rassegnazione al destino: “Bologna la dotta” contro “Bologna la grassa”, insomma). Una metafora su cosa significa essere bolognesi, quindi, scritta da chi Bologna la ama e la vive giorno per giorno da dietro il bancone di uno dei posti che meglio rappresentano la spirito conviviale di questa città.
Unico neo la figura del Commissario Iodice, che esce poco dalla pagina e non riesce ad andare oltre al ruolo del comprimario. Avrebbe meritato qualche piccolo approfondimento in più. Ma forse, da buon oste qual è, Venturi ha capito bene che per mettere in piedi un buon pranzo non c’è sempre bisogno di mettere troppa carne al fuoco e quella che ci offre, tra queste pagine, è certamente di primissima scelta.
Definire questa storia dentro etichette di generi sarebbe riduttivo, perché gioca a prendere tutto quello che gli serve da canoni differenti, che sia il noir di certe ambientazioni (piove, piove tantissimo) o la già citata tradizione umoristica italiana. Forse, però, l’unica etichetta da apporre sopra la copertina è questa: bolognese. Venturi ha scritto un romanzo bolognese, che trasuda Bologna in ogni lacrima di inchiostro. E questo, a differenza degli spaghetti, esiste sul serio. Per fortuna di chi lo leggerà.