Gioia mia
In cima a una collina che guarda l’Etna da un lato e il mare dall’altro, sorge una masseria circondata da uno spicchio di paradiso: terrazzamenti carichi di ulivi, fichi e pruni, orti traboccanti di erbe e prati fioriti a perdita d’occhio. Questa tenuta magnifica è frutto del sudore e della tenacia di Luisa Russo, che si è intestardita a trasformare le “quattro pietre perse” che le ha regalato suo marito in un castello. Anzi, in una castidda, perché quella terra è femmina, su questo Luisa non ha dubbi. Femmina e frutto dell’amicizia tra femmine, perché se la Castidda esiste è grazie al successo del ristorante che ha aperto insieme ad Agata, Lisabetta, Violante, Lucietta e le altre amiche sue, conosciuto in tutta la Sicilia per i piatti deliziosi e l’atmosfera amurusa. Tutta questa intraprendenza femminile dà parecchio sui nervi a suo marito Carmine, che la Castidda non può nemmeno sentirla nominare. Gli speculatori edilizi, invece, non riescono a staccarle gli occhi di dosso: il più agguerrito, presidente di una società assai poco limpida, ci vede già un albergo di stralusso, e per aggiudicarsela farebbe letteralmente carte false. Alle sue prepotenze mafiose Luisa resiste per mesi, finché, dopo l’ennesimo colpo basso, qualcosa le si rompe in petto: un sussulto, una vertigine, e in un attimo è a terra, rigida come una pupa di legno. La corsa in ospedale, la rianimazione, le prime notizie incerte: Luisa è salva, è stabile, ma, per il momento, dorme. E mentre Carmine in sua assenza cerca di sbarazzarsi della Castidda e le amiche, per impedirglielo, la occupano come un fortino, mentre il figlio Giulio e il dottor Giona vegliano su di lei, Luisa continua a dormire. E, dormendo, va indietro nel tempo e ripesca brandelli di vita che la memoria aveva cancellato: certe giornate felici d’infanzia con quel nonno che la chiamava “gioia mia”, il buco che la sua morte le ha scavato nel cuore, quello strano gelo addosso il giorno del matrimonio con Carmine… Fino a che da quel mare di scordanza viene a galla il ricordo riposto più a fondo, la ferita che brucia di più. Tea Ranno ci regala un altro viaggio – pieno di saliscendi impetuosi e approdi inaspettati – nella sua, ormai celebre, terra d’amurusanza, quel posto meraviglioso e assolato in cui le pietre perse si trasformano in castelli, i ricordi si riparano con ago, filo e gentilezza, e le amicizie femminili salvano la vita.
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Con questo romanzo, Tea Ranno conferma la sua bravura e ci regala ancora una volta la magia che pervade la sua penna. Da siciliana, non posso che emozionarmi leggendo il titolo, “Gioia mia”: due semplici parole che racchiudono l’essenza dell’Amore puro. Amore verso amanti, figli, nipoti, amici… Amore in senso lato che abbraccia e non stritola; Amore sincero e incondizionato; Amore che può esternare affetto o passione, senza mai tracimare nella valle di egoismo che affonda cuori e fagocita anime.

Luisa Russo riceve in dono da Carmine, il marito, la tenuta che un tempo era appartenuta al nonno e che lei, forse per proteggere il cuore dal dolore provato nel perderla, aveva quasi dimenticato. Quasi… perché mai si può dimenticare una terra che ci ha offerto vita; si può solo riporre quel ricordo in un cassetto cercando di non aprirlo, per non ritrovarsi a versare lacrime di nostalgia.

“L’Etna in lontananza a sinistra, poi, scorrendo via via lo sguardo verso destra, la piana di Catania, la costa saracena, Augusta e il suo porto, l’isola Magnisi, la Targia e infine, Scala Greca, la propaggine più a nord di Siracusa: un pezzo di costa jonica su cui ogni mattina sorgeva il sole dei giusti, diceva suo nonno.”

Questo è lo scenario che si apre davanti ai nostri occhi, trasformando le parole in bellezza che si può toccare, in una percezione che travolge tutti i sensi e ci trasporta lì, in quel punto esatto della Sicilia, dove l’eternità va a braccetto con i ritmi degli uomini, generando un tempo che appartiene solo all’Isola e ai suoi abitanti.

Ma torniamo alla storia. Dopo qualche perplessità iniziale per quel regalo inaspettato, Luisa ritrova la sintonia con le “pietre perse” e decide di farle risorgere, trasformandole in una bellissima Castidda. Operazione che le riesce benissimo, attirando però due pericoli: l’interesse di un mafioso locale, intenzionato a portarle via quel gioiello, e la rabbia di suo marito, che di quel dono si pente amaramente. Luisa è risoluta, non si fa intimorire e può avvalersi dell’appoggio delle sue amiche fidate, con le quali gestisce in maniera eccellente un rinomato ristorante. Le ha tutte al suo fianco quando i primi attacchi tentano di ferirla più del morso di uno squalo, mettendo a dura prova la sua tenacia ma non il coraggio.

Un giorno, però, come fosse acquazzone che arriva all’improvviso, qualcosa dentro di lei si spezza, spegnendo la luce della sua coscienza e facendola cadere in un sonno profondo. E se da un lato troviamo il figlio Giulio, terrorizzato dall’idea di perderla, dall’altro osserviamo attoniti il marito Carmine, che senza scrupoli vuole approfittare dell’assenza di Lucia per vendere a sua insaputa la tenuta. Ma lei dormiva, inconsapevole…

“E, dormendo, riandava al tempo di prima, quello che il mare della scordanza aveva inghiottito e che la memoria, adesso, tornava a riprendersi.”

Sono dolci i ricordi di un tempo che non c’è più ma che continua a vivere, emergendo prepotente da pietre e alberi, o giungendo con un soffio di vento per sussurrare parole dolci ai cuori di chi è rimasto e deve svolgere il difficile compito di non dimenticare. La Sicilia è una terra che ama chi la rispetta e la sa ascoltare e, come dico sempre, non si stanca mai di richiamare a gran voce i figli lontani; come fa con Agata, la Tabacchera, che ritroviamo in questo romanzo. Il suo arrivo inaspettato porta scompiglio ma anche prospettiva e proietta nuova luce sulle ombre che provano a offuscare tutto, persino le cose belle. Gente che va ma sogna sempre di tornare, pregando il cielo che gli sia concessa la fortuna di invecchiare e morire nell’unica terra che può chiamare Casa.

La lotta di Luisa per difendere la sua amata Castidda diventa la lotta delle sue amiche, stoiche e coraggiose, capaci di atti dolci ma anche risolute come e più degli uomini, che in questa storia trovano un riscatto morale nella figura del dottor Giona. L’uomo, infatti, ha un ruolo importante in questa storia e i contorni della sua figura si vanno delineando pagina dopo pagina, con il garbo e la delicatezza che solo la penna di questa autrice è in grado di donare. Il vecchio che ripara i ricordi, così viene chiamato, e “… chissà che dolori ha patito, perché devi aver patito assai per sviluppare una capacità così grande di entrare nel dolore degli altri, e capirlo, e tentare di sanarlo.”

Il percorso di Luisa è un cammino travagliato, un parto dell’anima che può avere solo due epiloghi: morire o rinascere. In gioco, oltre alla Castidda, c’è la sua stessa vita. Con uno sforzo che le richiederà tantissime energie, deve cercare di curare la sua anima, donandole nuova linfa, così come ha fatto con quel pezzo di terra tanto amato. Gli insegnamenti del nonno accompagneranno questo cammino sempre, come una voce che si insinua tra le pieghe del collo e sussurra alle orecchie quando ce n’è bisogno.  Voglio chiudere con un paragrafo che ho particolarmente amato, consigliandovi di leggere presto questo libro perché, oltre a essere una storia, è anche poesia.

“ E non è vero che il tempo è galantuomo, che le offese te le scordi, che la morte sana ogni rancore, non è vero, lo dicono i parrini spingendo a una santificazione che invece si fa malattia, perché il male che ti fanno ti resta nella carne prima ancora che nella memoria, pure che hai la pelle di pietra, pure che sei una vipera, pure che guardi alla famiglia come a una prigione da cui puoi scappare: appena tuo figlio diventa grande, appena hai di che mantenerti, di che campare senza stendere la mano a lui.”

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