Recensione a cura di Rosario Russo
C’è un mistero che da circa un secolo si annida in provincia di Agrigento, un enigma (in parte) ancora irrisolto: come è possibile che proprio in quel lembo di terra, storicamente il più povero della Sicilia, siano nati tre numi tutelari della letteratura nazionale come Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri? Tempo fa, questa domanda fu posta a Camilleri, il quale dopo aver tirato una boccata di fumo dalla sigaretta, rispose serafico: “perché scrivere non costa niente”.
Scrivere non costa niente, è vero, ma siamo sicuri che sia tutto qui? Secondo Gaetano Savatteri (anche lui figlio della provincia agrigentina) la risposta sarebbe da cercare proprio nelle contraddizioni che questa striscia meridionale di Sicilia ha sempre offerto, rendendola un contenitore di storie estreme; per acchiapparle, basterebbe soltanto un po’ di immaginazione.
E di immaginazione ne ha avuta tanta anche Lillo Vasile, il protagonista del “Don Chischiotte in Sicilia” di Roberto Mandracchia, ennesimo talento letterario girgentano. Ci troviamo a Porto Empedocle e dopo una vita passata a nutrirsi di romanzi polizieschi, l’attempato vedovo Vasile, professore di lettere in pensione, si è fatto convinto di essere nientemeno che Salvo Montalbano, il commissario letterario più amato d’Italia. In compagnia del suo fido ispettore Fazio, al secolo Ousmane, un povero ambulante senegalese, il novello commissario partirà per una spassosa quanto straordinaria avventura, fatta di amicizia e tanto amore, soprattutto per la letteratura.
E a proposito di letteratura, tanti sono i riferimenti a Camilleri e Cervantes, non a caso due scrittori che hanno lasciato un segno indelebile nella storia. Se il siciliano ha rivoluzionato il genere poliziesco, in barba ai vari pregiudizi isolani, l’iberico è considerato il padre del romanzo moderno. Ma Mandracchia ha attinto a piene mani pure da Pirandello, perché “Don Chisciotte in Sicilia” è una storia che parla di maschere, della frantumazione dell’io in identità molteplici. E non in ultimo, di comicità: a immaginare Lillo Vasile che parla esclusivamente in “camillerese”, che scambia innocue pale eolie per malavitosi, che si rivolge agli amici come se fossero i suoi sottoposti, la risata parte quasi involontaria. Ma dietro la maschera di un povero vecchio ormai svitato si nasconde l’anima di un tenerissimo sognatore, che cerca in qualche modo di riscattare la propria vecchiaia. E alla fine il riso diventa amaro, la comicità si conferma il sentimento del contrario.
In conclusione, il romanzo si rivela un esperimento tanto ambizioso quanto riuscito. E poi bisogna dirlo: la copertina è davvero sublime.
Complimenti, Roberto.