Dai tuoi occhi solamente
New York, 1954. Capelli corti, abito dal colletto tondo, prime rughe attorno agli occhi, ventotto anni, Vivian ha risposto a un’inserzione sul New York Herald Tribune. Cercavano una tata. Un lavoro giusto per lei. Le famiglie l’hanno sempre incuriosita. La affascina entrare nel loro mondo, diventare spettatrice dei loro piccoli drammi senza esserne partecipe, e osservare la recita, la pantomima della vita da cui soltanto i bambini le sembrano immuni. La giovane madre che l’accoglie ha labbra perfettamente disegnate con il rossetto, capelli acconciati in onde rigide, golfini impeccabili. Dietro il suo perfetto abbigliamento, però, Vivian sa scorgere la crepa, il muto appello di una donna che sembra chiedere aiuto in silenzio. Del resto, questo è il suo lavoro: prendersi cura della vita degli altri. L’accordo arriva in fretta. A lei basta poco: una stanza dove raccogliere le sue cose; una città, come New York, dove potere osservare le vite incrociarsi sulle strade, scrutare mani che si stringono, la rabbia di un gesto, la tenerezza in uno sguardo, l’insopportabile caducità di ogni istante. Ed essere, nello stesso tempo, invisibile, sola nel mare aperto della grande città, a spingere una carrozzina o a chinarsi per raddrizzare l’orlo della calza di un bambino. Scrutare i gesti altrui e guardarsi bene dall’esserne toccata: questa è, d’altronde, la sua esistenza da tempo. Troppe, infatti, sono le ferite che le sono state inferte nell’infanzia, quando la rabbia di un gesto – di sua madre, Marie, o di suo fratello Karl, animati dalla medesima ira nei confronti del mondo – si è rivolta contro di lei. Sola nella camera che le è stata assegnata, Vivian scosta le tende dalla finestra, lancia un’occhiata al cortiletto ombroso e spoglio nel sole morente di fine giornata, estrae dalla borsa la sua Rolleiflex e cerca la giusta inquadratura per catturare il proprio riflesso che appare contro l’oscurità del vetro. È il solo gesto con cui Vivian Maier trova il suo vero posto nel mondo: stringere al ventre la sua macchina fotografica e rubare gli istanti, i luoghi e le storie che le persone non sanno di vivere.
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Recensione a cura di Manuela Fontenova

“La vera arte non ha bisogno di proclami e si compie in silenzio.”

(Marcel Proust)

Nel silenzio e nell’anonimato si consumò l’esistenza e l’arte di Vivian Maier, fotografa americana che conobbe il successo solo dopo la sua morte. Poche frammentarie notizie sulla vita di questa grande artista che non rivelò mai al mondo il suo talento. Per anni scattò fotografie, catturando le vite degli altri con la sua Rolleiflex, ma non ebbe mai il coraggio, o la forza, o la voglia di stamparle. Così i negativi si accumularono negli scatoloni stipati in un magazzino, e solo nel 2007 vennero trovati da un giovane rigattiere, che capendo il potenziale di quel lavoro mai veramente “terminato”, decise di diffondere le immagini, e in seguito esporle al pubblico. E fu così che Vivian Maier divenne un’artista apprezzata e conosciuta da tutti.

Francesca Diotallevi con questo meraviglioso romanzo ci racconta la vita di un’artista, che per sua volontà, non si dichiarò mai tale, che anzi scelse un lavoro umile, non si circondò di veri affetti e morì sola, senza che nessuno avesse mai visto le sue fotografie. Non è una biografia, l’autrice ha cercato di costruire una storia attorno alle poche informazioni disponibili, dando largo spazio all’immaginazione, e intessendo per il lettore, un racconto ricco di emozione e dolore.

Il libro inizia con una giovane Vivian in procinto di prendere servizio come bambinaia presso una facoltosa famiglia newyorkese, una delle tante famiglie che conoscerà nel suo lavoro. Siamo nella New York degli anni ’50, una città piena di novità e attrattive, piena di ricordi e di spunti, di immagini e di attimi da immortalare. Ma non c’è mai serenità per Vivian: il mondo in cui ha deciso di confinarsi è fatto di ritagli di vite di altre persone, di storie che ruba con il suo obiettivo agli ignari modelli che incontra per la strada. Scegliere di trincerarsi dietro un muro impenetrabile per non essere costretta a guardare la sua di vita, per non ricordare il volto di una madre che non l’ha mai amata e per impedire al suo cuore di provare un affetto sincero.

“I legami tra le persone, pensò, erano ciò che rendeva il mondo un posto così complicato. Abituata sin da bambina a dire addio a quelli che amava, aveva ritenuto di poter praticare tagli netti e indolori, senza fare i conti con l’irrazionalità insita in ogni essere umano, con i sentimenti. Da solitaria qual era diventata, ricercava in maniera ossessiva ciò che annodava tra loro le famiglie, gli amanti o anche solo gli sconosciuti che si incrociavano in una strada”.

Mi piacerebbe trovare parole nuove per raccontarvi la scrittura di questa bravissima scrittrice, perché non è affatto facile spiegare il modo in cui la sua prosa riesce a creare un legame tra lettore e protagonista: io vorrei chiamarla poesia. Le parole sono sassi a volte, le riflessioni sono nuvole che offuscano il cuore, non fraintendetemi, ma il suo stile a me sembra di “toccarlo, il peso dei sentimenti che affronta, lo sento nelle mani, nella testa, negli occhi che rapidi scorrono tra le pagine, nell’urgenza di ritrovare Vivian nel riflesso di una vetrina o di uno specchio”. Ho già provato le stesse sensazioni durante la lettura di “Dentro soffia il vento”, bellissimo romanzo del 2016, e spero di continuare il mio viaggio con “Amedeo, je t’aime”.

La sensibilità con la quale ha raccontato la storia di Vivian Maier mi ha profondamente colpita, il rispetto per una donna decisamente anticonvenzionale, soprattutto per l’epoca in cui visse, denota non solo una grande capacità narrativa, ma anche una forte empatia e un amore per l’arte in tutte le sue forme. Proprio tra le note alla fine del libro, ho trovato la dimostrazione di questo mio pensiero:

“Resta da chiedersi se questo è ciò che Vivian avrebbe voluto. Per ragioni a noi sconosciute, quella che, oggi, sappiamo essere stata una delle più grandi fotografe del Novecento scelse di non presentarsi mai come artista”.

Forse Vivian avrebbe preferito rimanere semplicemente una modesta bambinaia, sola e con un talento gelosamente custodito, ma io ringrazio la Diotallevi per avermela fatta conoscere, per aver tracciato “non la vita, bensì l’immagine” di una inestimabile artista.

Voci di corridoio e frasi lette sul web, farebbero presagire una candidatura al Premio Strega 2019: a questa giovane ma brillante scrittrice e al suo meraviglioso romanzo, un augurio di cuore affinché tutto ciò si trasformi in realtà.

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