Abbiamo sempre vissuto nel castello
“A Shirley Jackson, che non ha mai avuto bisogno di alzare la voce”; con questa dedica si apre “L’incendiaria” di Stephen King. È infatti con toni sommessi e deliziosamente sardonici che la diciottenne Mary Katherine ci racconta della grande casa avita dove vive reclusa, in uno stato di idilliaca felicità, con la bellissima sorella Constance e uno zio invalido. Non ci sarebbe nulla di strano nella loro passione per i minuti riti quotidiani, la buona cucina e il giardinaggio, se non fosse che tutti gli altri membri della famiglia Blackwood sono morti avvelenati sei anni prima, seduti a tavola, proprio lì in sala da pranzo. E quando in tanta armonia irrompe l’Estraneo (nella persona del cugino Charles), si snoda sotto i nostri occhi, con piccoli tocchi stregoneschi, una storia sottilmente perturbante che ha le ingannevoli caratteristiche formali di una commedia. Ma il malessere che ci invade via via, disorientandoci, ricorda molto da vicino i “brividi silenziosi e cumulativi” che – per usare le parole di un’ammiratrice, Dorothy Parker abbiamo provato leggendo “La lotteria”. Perché anche in queste pagine Shirley Jackson si dimostra somma maestra del Male – un Male tanto più allarmante in quanto non circoscritto ai ‘cattivi’, ma come sotteso alla vita stessa, e riscattato solo da piccoli miracoli di follia.
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Due giovanissime donne e lo zio, costretto su una sedia a rotelle, sono i soli abitanti di una grande dimora, un tempo piena di vita. L’unico fedele compagno di viaggio, in questa storia dalle tinte macabre e surreali, è Jonas, un gatto tirato su a panna, pasticcini al rum e uova al burro e del tutto inadatto alla caccia.

Costance e Mary Katherine (detta Merricat) hanno perso i genitori e il fratello sei anni prima a causa di un terribile avvenimento, accaduto proprio in quella casa. Anche la moglie dello zio Julian ha perso la vita in quella circostanza e lui stesso si è salvato per miracolo, rimanendo però irrimediabilmente compromesso nel fisico e anche nella mente.

Arsenico e zucchero; si possono confondere le due cose, provocando erroneamente una tragedia? Questa è la domanda che il lettore si pone durante l’intera lettura e sta a voi scoprire se, arrivati all’ultima pagina, troverete una risposta.

Costance è la sorella maggiore ed è lei a occuparsi della cucina, non ammettendo intromissioni. A lei spetta anche il compito di accudire Julian, bisognoso di continua assistenza. Lo fa con amore e dedizione, senza mostrare mai insofferenza o stanchezza. A Merricat, invece, tocca l’ingrato compito di recarsi in paese per le compere settimanali; incombenza che eviterebbe molto volentieri se solo avesse un’alternativa. Ma deve farlo lei: lo zio non può camminare e Costance non deve in alcun modo oltrepassare la soglia del suo giardino. Proprio quest’ultima, infatti, dopo la morte dei suoi familiari, è stata processata per omicidio. Il fatto che, alla fine, sia stata prosciolta da ogni accusa, però, non impedisce agli abitanti del paese di perpetrare una campagna di odio a suo danno. La stessa Merricat, ogniqualvolta si reca a fare compere, viene sommersa da sguardi indagatori, beffe e derisioni.

“Merricat, disse Connie, tè e biscotti: presto, vieni.

Fossi matta, sorellina, se ci vengo m’avveleni.

Merricat, disse Connie, non è ora di dormire?

In eterno, al cimitero, sottoterra giù a marcire.”

Questo è il dileggio preferito per schernirle, e persino i bambini conoscono a memoria questa sequenza di frasi denigranti. Una sorta di cantilena dell’orrore che mette in evidenza la purezza dei bambini ormai contaminata dalla malvagità dei genitori. Un atteggiamento inqualificabile, triste quanto la stessa tragedia in questione. Shirley Jackson ha pubblicato questo romanzo per la prima volta nel 1962 e ci dimostra quanto l’essere umano non abbia la tendenza a diventare migliore con il trascorrere del tempo. I codardi senza cervello, ancora oggi, attaccano in branco mietendo vittime e i social hanno permesso anche il proliferare dei leoni da tastiera, risultato di un’evoluzione in negativo. In questa storia non tutto è marcio e qualcuno si distingue compiendo azioni caritatevoli ma, come spesso accade, bisognerebbe agire in tempo e non quando il danno ha raggiunto un punto di non ritorno.

Nonostante questa persecuzione senza sosta, la vita delle due sorelle segue una routine per loro confortante, che le vede racchiuse in una bolla di deliri, timori e sensi di colpa. La casa diventa un tempio della memoria, che le due sorelle puliscono e riordinano con una cura maniacale. Anche i libri, nella loro scomposta esistenza, giocano un ruolo importante e diventano strumento per eludere la solitudine. È Costance, ogni tanto, a mostrare blandi cenni di apertura verso l’esterno mentre per Merricat è tutto già perfetto e teme le novità; vorrebbe solo un cavallo alato per portare la sua amata sorella a vivere sulla luna. Sarà una visita inaspettata la chiave di svolta che aprirà le porte al tanto temuto cambiamento e i riti propiziatori di Merricat, in questa occasione, risulteranno vani.

Ancora una volta, Shirley Jackson, che ho molto apprezzato con “L’incubo di Hill House”, ci regala atmosfere cupe e incantatrici, che tengono il lettore in uno stato di ansia fino all’ultima pagina. Ve lo consiglio! Buona lettura e, mi raccomando, attenti a dove tenete lo zucchero!

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