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Oggi parliamo con… Luigi La Rosa

A cura di Rosario Russo

Ciao Luigi, è un piacere poter intervistare uno scrittore del tuo calibro! Parlaci un po’ di te.

Grazie, il piacere è mio. Difficile vedersi dall’interno con lucidità e con occhio distaccato. Posso dire che sono essenzialmente una persona complessa, con alcuni punti fissi, alcune idee fondamentali. Queste riguardano l’aspetto estetico, un punto per me irrinunciabile. Saprei sacrificare qualunque cosa nella vita: ricchezza, prestigio, comodità. Ma non la bellezza. Ho improntato tutto in rapporto ad essa: i miei studi, le mie letture, la mia volontà di scrivere, i miei amori – e non ultimo quello per la città di Parigi, divenuta il mio principale riferimento esistenziale.

L’Uomo senza inverno è un’opera imponente ed elaborata nei minimi dettagli. Quanto è importante la progettazione narrativa? Come procedi di solito alla stesura di un romanzo?

Mi piace definirmi un “architetto” delle storie che scrivo, nel senso che l’aspetto strutturale e progettuale è per me a dir poco fondamentale, oltre che appassionante. L’arte è anche “artigianato” nell’accezione più alta del termine e ogni opera è anzitutto frutto di una volontà tenace, di studio, di ricerche, di riflessioni, di tecniche. E di tanto, tanto vissuto. Tanto dolore, aggiungerei, perché il dolore finisce per scavare dentro, facendoti andare in profondità alle cose che racconti. Naturalmente, tutto ciò sposa l’aspetto più misterioso, più irrazionale e profondo dell’atto creativo – quello della cosiddetta “ispirazione” – parola secondo me abusata, perché ha dato luogo a false mitologie e a non pochi superficiali fraintendimenti.

Gustave Caillebotte è davvero un personaggio molto complesso. Si tratta di un grande artista, la cui figura però in passato è stata associata a quella di semplice mecenate. Da dove è partita l’ispirazione per raccontare una vita così travagliata come la sua?

Tutto parte dal fatto che io consideri la letteratura un gesto di “risarcimento”. La scrittura ha per me questa missione ben precisa e salvifica: restituire, colmare, ridare indietro a chi non ha avuto o a chi si è perduto tra le pieghe della grande Storia. Lo scrittore ha il potere di restituire un po’ di luce in mezzo all’oscurità del mondo. Virginia Woolf lo descriveva come una piccola torcia capace di spezzare il nero di un grande bosco. Ebbene, Gustave Caillebotte, genio assoluto della pittura ottocentesca (e non solo) è stato risucchiato dalle tenebre del suo difficile tempo. La sua vita, la sua storia, il suo stare nell’ombra ha talvolta nascosto la grandezza del tuo talento. E poi la grande rivoluzione della sua arte, la sua diversità, la sua omosessualità da molti ancora spesso negata hanno fatto in modo che su di lui calasse una sorta di silenzio omertoso. Tutti elementi che mi hanno spinto a sentirlo, anche per ragioni autobiografiche, molto vicino a me e alla mia vita. Quindi a raccontarne la straordinaria e infelice esistenza.

Leggere il tuo romanzo equivale a intraprendere un viaggio nella Parigi traboccante di cultura e arte di fine Ottocento. Ci parli del viscerale rapporto che hai con questa splendida città?

Non commetto retorica se dico che Parigi mi ha davvero cambiato la vita. La scrittura, le mie esperienze erano come sospese da anni. Affondavo in un vuoto privo di energia e di slancio: ebbene, arrivare a Parigi ha significato per me assorbire una carica vitale incredibile. Parigi è stata e rimane la mia formazione, i miei studi, i miei amori, le mie passioni letterarie, i romanzi che ho amato, le poesie che ho letto in lacrime, i dipinti che adoro. È un luogo reale, fisico, e al tempo stesso magico, metafisico, nel quale la bellezza ha lasciato tracce imperanti. Tutto a Parigi, a cominciare da strade, piazze, chiese, parchi e monumenti, risuona di celebrità e di talento. Quello di quanto hanno sacrificato la loro stessa esistenza in ragione di un ideale superiore di bellezza.

Per te la scrittura non è una semplice passione, ma una ragione di vita, dato che sei un docente di scrittura creativa. Cosa pensi del fatto che nelle scuole italiane non si insegni la narratologia?

In Italia la filosofia di Croce e un certo snobismo pseudo-intellettuale hanno allontanato irrimediabilmente la narrazione dai suoi aspetti più intrinseci. Si è continuato a credere che scrivere sia qualcosa di illogico, di assolutamente privo di regole e di princìpi. Nulla di più dilettantesco e assurdo. Analizzando a fondo i grandi capolavori di ieri, i classici del passato, ti rendi conto che le opere più eccelse sono proprio quelle più pensate, studiate, meditate. Ebbene, questo limite “italiano” (ma direi forse “europeo”) mi è sempre stato stretto. Ecco perché ho deciso di approfondire gli aspetti della narratologia e di farne un mestiere. Questo è già il mio ventitreesimo anno di professione sul campo con gruppi e allievi di ogni età.

Quali sono le aspirazioni che hanno i tuoi allievi? C’è stato qualche allievo che ti ha lasciato una particolare soddisfazione?

Le aspirazioni dei miei allievi sono sempre in qualche misura legate alla volontà di scrivere. Una cosa che raccomando sempre a chi comincia: non pensate al punto di arrivo: pensate piuttosto al piacere del viaggio, come recita quella meravigliosa poesia di Kavafis. La nostra Itaca è crescere, imparare i segreti del narrare, scrivere delle buone storie e soprattutto crescere stilisticamente e intellettualmente. Il resto verrà da solo, lo farà la vita. Non tocca a noi sceglierlo. Credo che questo concetto di “piacere” nel duro lavoro sia passato agli allievi, alcuni dei quali mi seguono da diversi anni. Sono ormai parecchi quelli che hanno pubblicato con editori importanti, regalandoci magnifici romanzi e vincendo perfino grossi premi. Inutile dire che costituiscono il mio vanto.

A questo punto, la domanda sorge spontanea: quali consigli ti sentiresti di dare ad uno scrittore esordiente?

Il primo consiglio è “vivere”. Vivete quanto più possibile, andando a fondo alle esperienze di ogni giorno, tanto quelle positive quanto quelle amare, dolorose, drammatiche. Molto di quello che apprendiamo è frutto di sofferenza. Rimuoverla è un atto di chiusura, assolutamente nemico del romanzare. Lo scrittore in erba deve far tesoro di quanto ogni giorno la vita gli sottopone, prendendone nota nel suo taccuino segreto, meditandolo a fine giornata nel proprio diario intimo. Consiglio a tutti di tenerne sempre uno. E poi, ancora, di “leggere”. Leggere fino a mangiarsi gli occhi, leggere fino allo sfinimento, di tutto: dai libri a noi vicini a quelli diversissimi per contenuti e stili, leggere gli adorati classici, leggere per esplorare quali e quanto grandi siano state le vie della letteratura nei secoli passati. Veniamo da lì, non dimentichiamolo. Dobbiamo leggere per stabilire, come raccomandava Calvino, una parentela con gli scrittori che amiamo e che sentiamo affini.

Tu mi insegni che il lettore è la cosa più sacra alla quale ogni scrittore dovrebbe tenere. A quali categorie di lettori sono destinati i tuoi romanzi?

I miei libri non sono mai rassicuranti – non nel senso comune del termine. Mi piace raccontare di esistenze estreme, di uomini e donne che si confrontano con il proprio limite. Ebbene, con la storia di Caillebotte mi ha stupito scoprire che i lettori costituivano un pubblico veramente eterogeneo: dai giovanissimi, agli studenti di belle arti, alle donne di varie età ma anche a parecchi uomini. Mi ha sorpreso scoprire che il messaggio passava e che tutti lo comprendevano perfettamente. Non passa settimana che non riceva qualche bellissima lettera da parte di un lettore innamorato del libro, e questa è per me la risposta più bella.

Da circa un anno a questa parte, il Covid-19 ha letteralmente stravolto le vite di ognuno di noi. Cosa è cambiato per uno scrittore?

È cambiato moltissimo, direi tutto. Da un anno sono lontano da Parigi e adesso che sto per farvi ritorno ho come l’impressione che la città non esista quasi, che sia stato un delirio, un sogno, un’allucinazione creativa. Ho sofferto come tutti la reclusione e il silenzio di questi mesi – soprattutto io che solitamente scrivo nei caffè e che soffro nello starmene a lavorare tra le mura di casa. Ho patito la distanza dagli amici, dagli affetti più cari, la solitudine, il non poter viaggiare come sempre. Mi sono sentito privato della mia libertà vitale. Tuttavia, proprio perché sono uno scrittore e mi interrogo sull’animo, ho la certezza che l’umanità ce la farà comunque. Un virus non può distruggere la nostra fame di tenerezza, di scambi (anche fisici), il bisogno di un bacio, di un abbraccio, il desiderio di tornare a confrontarsi con gli altri. Anzi, io credo che alla fine di questo lungo tunnel rivivremo quello che è accaduto dopo le grandi guerre del Novecento: un ritorno intensissimo alla vita, alla sua bellezza, alla sua pulsione insopprimibile.

Hai progetti per il futuro? Qualche romanzo in cantiere?

A dire il vero ho già in cantiere un nuovo lavoro, ambientato tra la Sicilia dell’Ottocento e Parigi. Un romanzo biografico che ritrarrà tra luci e ombre un’altra straordinaria vita d’artista, con i suoi fallimenti e i suoi trionfi, le sue fughe e le sue cadute. Sono ancora in fase di ricerca, pertanto non posso aggiungere altro. Ma spero che tutto prenda al più presto forma dentro di me e che soprattutto io possa tornare a lavorarvi, a Parigi, nei miei adorati caffè.

Infine come da tradizione del blog Giallo Cucina, vorremo tanto conoscere il tuo piatto preferito.

Uno dei miei piatti preferiti, senza andare troppo lontano, è la pasta alla Norma. Adoro i suoi contrasti, il fritto della melanzana, il tocco di sapore della ricotta. Quando mi sento giù, quando ho particolarmente bisogno di consolarmi di qualcosa e soprattutto se ho necessità di energie o ancora quando, essendo a Parigi, avverto improvvisa la nostalgia di casa, ecco che, dieta permettendo, nulla più di un piatto fumante di pennette alla Norma mi rinsalda.

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