Intervista di Rosario Russo
Ciao Gaudenzio, presentati agli amici di Giallo e Cucina con una tua breve biografia.
Buonasera a tutti i lettori di Giallo e Cucina, sono Gaudenzio Schillaci e sono sobrio da tre settimane (ma la mia concezione di sobrietà ha ben poco di sobrio).
“La felicità si racconta sempre male” (Dialoghi Edizioni, 2020) è il tuo romanzo d’esordio, cosa potresti anticiparci a proposito della trama?
L’idea iniziale era quella di raccontare la storia di due famiglie russe durante le guerre napoleoniche ma pare che Tolstoj l’avesse già scritta una trama così (una roba sulla guerra e sulla pace, non so se ne avete sentito parlare) e pare pure che i suoi eredi siano gente dalla querela facile, allora avevo pensato di raccontare di un tale Gregor che una mattina, svegliandosi, si ritrova senza apparente ragione ad essere uno scarafaggio, ma anche in quel caso pare che gli eredi di Kafka siano facili all’incazzatura e persino maneschi, così alla fine ho optato per raccontare la storia di Gerri, un uomo ombroso piombato a Catania dopo venticinque anni e freddato, sin dalla prima pagina, da tredici revolverate, di Cristina, la giovane cameriera innamorata di lui, e del Commissario Bovio, un uomo accartocciato che si innamora a sua volta di Cristina e si ritrova ad indagare sulla morte di Gerri. Fino ad oggi non mi sono arrivate denunce per plagio né per turbamento della pubblica morale, che di questi tempi non è mica un risultato di poco conto.
Il tuo romanzo è davvero particolare in quanto, nonostante sia un poliziesco, presenta davvero pochissimi cliché tipici del genere letterario. A mio avviso, siamo davanti ad un opera che abbraccia più generi. Cosa ne pensi al riguardo?
Le uniche etichette che mi interessano, nella vita, sono quelle dove stanno scritti i prezzi. Rivendico la mia irresponsabilità, non nutro interesse verso l’adesione coatta alle regole di un genere o a dei canoni: prendo i pezzi che mi piacciono di più dai generi che mi piacciono di più e scrivo quello che mi pare. La libertà è spesso una dimensione stancante per l’essere umano (ci basta guardare agli ultimi dieci anni di vita politica nazionale per notare come da una ampia fetta di popolazione la libertà viene rinnegata) ma nella letteratura è l’unica condizione necessaria. Non mi piacerebbe essere il nuovo Camilleri, il nuovo Scerbanenco o il nuovo chissà chi, al massimo delle mie ambizioni mi andrebbe bene essere il nuovo Rocco Siffredi.
Passiamo al titolo, “La felicità si racconta sempre male”. Come mai hai deciso di battezzare così il tuo romanzo?
Nel procedere della storia ad un certo punto si scopre che, nella vita di uno dei personaggi, una canzone ricopre un’importanza seminale e quella canzone si chiama “Per causa d’amore”, cantata da Mario Venuti e Patrizia Laquidara. Nel ritornello cantano proprio questa frase, “la felicità si racconta sempre male”, che a sua volta è una citazione tratta da “Jules et Jim” di François Truffaut. Insomma, una citazione nella citazione: considerando che ho trovato una forma di ispirazione sia nella canzone che nel film, il titolo non poteva essere diverso.
C’è tanta musica all’interno della tua opera. Anticipa qualcosa riguardo la soundtrack che hai selezionato.
Ero stanco di leggere storie di Commissari raffinati cultori di jazz che si barcamenano tra Dizzie Gillespie e Sidney Bechet per poi vedere sempre i soliti quattro borghesucci panciuti e annoiati quando vado ad ascoltare il jazz dal vivo e allora ho voluto dare un taglio diverso alle cuffiette del Commissario Bovio, con una colonna sonora che spazia dal ricercato funk di D’Angelo al rap italiano, sia quello delle origini di Neffa e i messaggeri della dopa o dei Sottotono che quello contemporaneo di Luché e Fabri Fibra. Bovio è quindi un uomo del suo tempo che ascolta la musica del suo tempo e lega le sue vicende ora alle rime di Fabri Fibra, ora alle melodie di Livio Cori e via discorrendo. La scelta del nome del protagonista è, poi, anch’essa un tributo musicale, essendo un chiaro omaggio a quel messia che rispondeva al nome di David Robert Jones, in arte David Bowie.
Parlaci un po’ di Catania, il luogo in cui hai ambientato il romanzo. Quanto ha influito la città sulle scelte dei personaggi? Saresti riuscito a narrare la medesima storia in un altro luogo?
In un certo senso, Catania è per me a pieno titolo un personaggio del romanzo alla pari dei già citati Gerri, Cristina e Bovio. Tutto quello che dicono e fanno i personaggi è intriso di Catania, una città luminescente e rumorosa quando è bagnata dalla luce del sole e cattiva e torbida quando cala il buio. Le sue contraddizioni, le sue vergogne e i suoi dolori sono gli stessi che muovono i tre protagonisti. Fuori da Catania questa storia avrebbe perso il suo senso (sempre ammesso che ne abbia uno).
Adesso raccontaci un po’ dei personaggi, amatissimi dai tuoi lettori. Da dove nascono? Hai avuto delle fonti d’ispirazione?
Parto dalla questione che ho trovato più divertente, ovvero da Cristina, personaggio in cui cinque mie ex fidanzate/amanti/compagne (di cui per decenza e per paura di querele non farò il nome) si sono intraviste: ecco, in quel personaggio c’è un po’ di tutte loro. La casa di una, il cane di un’altra, il sorriso di un’altra ancora, le parole di un’ennesima altra donna etcetera etcetera. Ho giocato insomma a mischiare tutte le donne verso cui, per periodi più o meno brevi, ho nutrito un interesse amoroso, ed è venuto fuori questo biondo ircocervo bellissimo, tormentato e pieno di piccole e grandi manie. Mi piace pensare di aver reso loro un appassionato tributo, qualcosa a cui un giorno lontano potranno guardare sorridendo. Nella speranza che invece non decidano di ricorrere alle vie legali. In merito alle figure di Gerri e di Bovio, invece, ho tentato di raccontare attraverso loro qualcosa di me: sono un feroce avversario di certi autori che dicono che “la storia si è scritta da sé”, “i personaggi mi parlavano” e altri luoghi comuni della stessa pasta. Se una storia si è scritta da sola significa che l’autore non serviva a niente, e non ho mai avuto l’ambizione di essere superfluo.
Domanda di rito n.1 : possiamo sperare in un seguito delle vicende di Davide Bovio?
Attualmente sto lavorando ad altri progetti: due romanzi ambientati a Bologna, città dove vivo da qualche tempo, stanno aspettando una seconda mano di vernice e da qualche mese è partita un’altra avventura, quella del Collettivo SiciliaNiura, che vedrà la nascita di una collana omonima per Algra Editore. Bovio tornerà nei modi e nei tempi più inaspettati, sempre a patto che mi pagheranno abbastanza per farlo tornare.
Domanda di rito n.2 : quanto pesa, per uno scrittore siciliano, ambientare un poliziesco in Sicilia? Avverti il confronto con i mostri sacri dell’Isola?
Per niente. Quando scrivo non penso a come verranno accolte le mie parole e quando sono in promozione tendo a non dare troppo ascolto a paragoni dal mio punto di vista insensati. Camilleri, per tornare a fare il nome con cui chiunque nato al di qua dello stretto deve confrontarsi, l’ho letto poco e mai apprezzato più di tanto. Piuttosto, preferisco essere confrontato con il cinema poliziottesco di Umberto Lenzi o di Stelvio Massi, che mi sono divertito ad omaggiare nel testo infilando qualche piccolo riferimento nascosto: quei film hanno avuto molta più influenza nella mia concezione di narrazione rispetto agli autori isolani più conosciuti.
Se dovessi consigliare un romanzo ai lettori di Giallo e Cucina, quale sceglieresti?
“Estensione del dominio della lotta” di Michel Houllebecq, “Il boia” di Eduard Limonov e “Il lercio” di Irvine Welsh: tre romanzi che spiegano bene che la letteratura deve essere feroce, sporca di sangue e di merda.
Una domanda su “La felicità si racconta sempre male” che vorresti ti venisse posta e che invece non accade mai?
“Perché hai deciso di inserire, nella storia personale del Commissario Bovio, proprio Zdenek Zeman?”, e la risposta sarebbe “perché il romanzo è mio e ci metto quello che mi pare”.
Prima dei saluti finali come tradizione di Giallo e Cucina ti chiediamo di salutarci con una citazione ed una ricetta che ami!
Sono un grande amante del sushi, ma solo perché sotto casa mia c’è un locale dove viene servito su delle modelle in lingerie. Ogni tanto cerco di fregarmi uno di quei piatti ma l’idea di essere tacciato di maschilismo alla fine mi frena sempre: non voglio essere Camilleri, non voglio essere Scerbanenco, non voglio essere nessuno ma di certo non voglio nemmeno essere il nuovo Harvey Weinstein.
“L’amore è la risposta ma, mentre aspettate la risposta, il sesso può suggerire delle ottime domande” di Woody Allen (un altro che, in “La felicità si racconta sempre male”, ha un certo peso).
Grazie per l’attenzione, a presto.