Quando e perché hai pensato a questo nuovo libro?
Innanzitutto, grazie dell’ospitalità.
Mi pongono spesso questa domanda ed io rispondo sempre dicendo che non so inquadrare un quando, un dove e un perché per le ispirazioni delle mie storie.
Si tratta di un processo – quello creativo – misterioso e imprevedibile. È il bello di questo mestiere.
Posso dirti che la leggenda del diamante nascosto mi ha sempre affascinato, lavorandomi dentro lentamente. Ma l’idea di scriverne un libro ha preso corpo quando ho iniziato a fantasticare sulla figura di Messisbugo, grande Scalco alla corte degli Este. Allora mistero, esoterismo, folklore e cucina si sono sposati in un’unica grande storia.
Spesso si parte da una sensazione. La tua qual è stata?
Più che da una sensazione, da una visione. Quella di una grande cucina/fucina all’interno del meraviglioso Palazzo dei Diamanti. Una cucina in cui si creava, si filosofeggiava e in cui si tessevano le sorti di un’intera corte.
La storia è ambientata nella Ferrara Estense. Come mai e quali ricerche hai svolto?
Perché a quel tempo era una delle corti più importanti. Non a caso Ferrara viene considerata dagli studiosi la prima città moderna d’Europa. Quindi uno scenario straordinario per ambientare una storia. E poi perché Cristoforo da Messisbugo “operava” proprio in questa città, la stessa città in cui sono nato e cresciuto io.
Ovviamente le ricerche sono state molteplici. Le più affascinanti sono state quelle sui ricettari antichi, meravigliosi sia nella scrittura, sia nella genialità dirompente degli accostamenti culinari.
Le ricette che descrivi sono particolari e ben elaborate, vere e proprie opere d’arte, leccornie che il protagonista propone nei banchetti di corte. Cristoforo di Messisbugo è un personaggio ben costruito, quasi perfetto. L’arrivo del fratello, però, interrompe l’armonia del racconto e il romanzo cambia direzione. Senza svelare troppo. Cosa ci puoi raccontare?
Ogni genio racchiude dentro di sè un alter-ego, una metà oscura, un passato spesso irrisolto e non detto. Il mio Messisbugo non è da meno. Il passato, che spesso si cerca con tutte le forze di rimuovere, può ritornare inaspettatamente, magari nel momento di massimo successo. In questo caso ha le sembianze del Frate, fratello di Messisbugo. Un uomo ambiguo, ex religioso, dotato di un potere straordinario quanto oscuro: una sorta di seconda vista che gli permette di vedere il futuro attraverso il medium del disegno.
Come possiamo definire questo libro? Un romanzo storico? Un noir ? Un thriller esoterico?
Un thriller storico, esoterico, gastronomico e ucronico.
Ora però, come vuole la tradizione del Blog, ti chiediamo di salutarci con una citazione e una ricetta.
“I due fratelli riaprirono gli occhi. Lo fecero lentamente e lo fecero insieme. I palmi stretti l’uno nell’altro. C’era un unico foglio disegnato sulla scrivania. Un unico grande disegno. I due fratelli si guardarono negli occhi. Si sorrisero. Forse per la prima volta nella loro vita si sorrisero con affetto e sincerità. Forse per l’ultima volta.
Una cascata d’acqua si riversò improvvisa dalla finestra dello studiolo e iniziò a riempire la stanza. C’era un odore terribile di cose morte, di acqua putrida e stagnante.
Il Frate e Cristoforo da Messisbugo appuntarono gli occhi sul disegno e videro un grande, meraviglioso diamante. Una gemma piena di luce e di mistero. Ci fu un lampo abbacinante. Un chiarore bianco esplose dal foglio e inondò i due fratelli. La luce avvolse ogni cosa.
Una luce d’altrove, più forte di mille diluvi e di mille diavoli.”
“Piglia il petto d’un cappone allesso, e libbra una e mezza di formaggio duro grattato, e libbra una di formaggio grasso, e libbra una di pancetta di porco allessa, grassa e buona; e pista bene ogni cosa insieme e riponila in un vaso, aggiungendovi poi uova dieci e un poco d’erbe oliose, ben pistate minute con i coltelli, e mezza oncia di cannella, e oncia mezza tra garofani e gengevero e pevere, tanto dell’uno quanto dell’altro; e messederai bene ogni cosa insieme, e ne farai battuto. Poi farai una spoglia sottile, e farai i tuoi tortelletti, piccioli quanto è una nizzola o poco più. Poi li porrai a cuocere in buon brodo grasso, giungendovi un poco di zaffarano per dargli il giallo; e li lasciarai bollire per spazio d’un miserere. E poi li imbandirai, ponendogli sopra formaggio duro grattato e cannella e zucchero.”
Ringrazio Andrea Biscaro per cortesia e disponibilità e invito i lettori a leggere “Il cuoco dell’inferno”.