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Annarita Zambrano

Dal 24 agosto nelle sale, Rossosperanza è un film del 2023 scritto e diretto da Annarita Zambrano, con Margherita Morellini, Ludovica Rubino, Leonardo Giuliani, Luca Varone, Elia Nuzzolo, Daniela Marra, Andrea Sartoretti.

 

Nasce a Roma ma vive a Parigi. Dopo vari cortometraggi che hanno fatto il giro dei festival e il documentario L’anima del gattopardo, nel 2017 presenta a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, la sua opera prima, Dopo la guerra, con Giuseppe Battiston e Barbora Bobulova. Quest’anno è tornata al cinema con Rossosperanza, che dopo essere stato in concorso al Festival di Locarno ha infiammato i cuori e i cervelli dei (pochi) fortunati che hanno potuto vederlo in sala. Sì, perché Rossosperanza, purtroppo, non è un film che oggi si piazza in cartellone a cuor leggero. È un’opera in cui convivono disperazione e liberazione, rabbia e amore, paura e desiderio. Un lavoro appassionato che merita grande risalto, che ha tutto quello che serve per entrare in contatto con chi sente lo stesso vuoto, lo stesso bisogno di spezzare catene e rompere gabbie. Un’espressione vitale che può svegliare giovani spettatori dal torpore e ricordare contro chi e cosa è giusto schierarsi. Chi lo ha visto non lo ha dimenticato e ci auguriamo che la sua fama possa propagarsi sempre di più.

Nel frattempo, abbiamo avuto il piacere e la fortuna di rivolgere qualche domanda ad Annarita Zambrano, senza dubbio uno dei nomi più intriganti dell’attuale panorama cinematografico italiano.

 

AB – Benvenuta Annarita e grazie del tempo che stai dedicando ai lettori di Giallo e cucina. Il tuo secondo lungometraggio, Rossosperanza, è uscito nei cinema italiani il 24 agosto dopo una calorosa accoglienza al Festival di Locarno. È un film coraggioso e sincero che racconta, attraverso il genere e un’ambientazione calata nei primi anni ‘90, come la classe dirigente si ritrovi a fare i conti con le ferite di una generazione di ragazzi insofferenti, testimoni della normalizzazione di una cieca violenza sociale che si perpetua nei saloni e nelle ville dei loro genitori. Ai tuoi occhi oggi come si è trasformata questa violenza, quali forme ha assunto per mascherarsi e sopravvivere indisturbata? Come i ventenni di oggi possono liberarsi da questo retaggio in un contesto sempre più anestetizzato?

AZ – Zena, Marzia, Adriano, Alfonso e Tommaso, sono i protagonisti di Rossosperanza, avatar semi-reali della rabbia che avevo allora e della coscienza che acquisito crescendo. I miei personaggi – tutti giovanissimi, sono tutti colpevoli e allo stesso tempo di un’innocenza assoluta. Vivono il paradosso di un’epoca (in Italia all’inizio degli anni ’90) in cui ferreo perbenismo e facili costumi camminano a braccetto schiacciando chi non vuole rispettare le regole imposte. Purtroppo l’ipocrisia, la violenza e il moralismo funesto di quel momento passato sono tutte cose che stanno ridiventando realtà nel mio paese adorato da cui più di venti anni fa, non lo nego, sono dovuta scappare per essere libera. E vorrei, fortemente vorrei che questo film curasse le ferite dei ragazzi che eravamo ma tenesse svegli soprattutto i ragazzi di ora, gli adulti che verranno, perché sono loro che devono combattere a spada tratta per conservare la libertà acquisita, anche, spero, un po’ grazie a noi. Mi spiego, oggi può sembrare scontato essere, amare e pensare liberamente, con chi, come e quando si vuole. Influencer e cantanti ce lo gridano in faccia da selfie colorati e clip scatenate.

Quando li vedo sono felice e penso che i miei amici che si sono impiccati perché non potevano amare chi volevano non sono morti invano, che le mie amiche violentate che hanno impiegato vent’anni a capirlo tanto era normale e hanno deciso di parlare anche se in ritardo… hanno lasciato una traccia viva e tangibile. Perché tutto il dolore, tutto il sangue versato si possa trasformare in voglia di vivere! In questo senso vorrei che questo film parlasse non solo ai ragazzi che eravamo ma soprattutto ai ragazzi che oggi sono liberi, sicuramente più di noi. La storia ce l’ha detto, non conta l’epoca, ci sarà sempre qualcuno che in Italia, sì, nel nostro paese, non si farà scrupolo a dire rinchiudiamo i matti, i dissidenti, i nemici, i poveri e visto che ci siamo anche i froci, le lesbiche, le puttane, i negri, i musulmani, gli ebrei, gli zingari, rinchiudiamoli tutti insieme e facciamoli diventare normali, “normali come noi”. Lo diranno. Già lo dicono. È per questo che non ci si può rilassare. Che non si può dormire MAI. Vorrei, mi piacerebbe, che chi ha vent’anni oggi difendesse anche la libertà di mia figlia di due anni, perché possa essere chi vuole e vivere come le piace e che a nessuno, a nessuno, venga in mente di rinchiuderla per farla diventare normale.

 

AB – Sia Rossosperanza che Dopo la guerra, il tuo esordio, trovano la loro forza nell’umanità e nella vitalità dei personaggi. Da parte tua traspare sicuramente molta fiducia negli attori, che incarnano i loro ruoli con una potente e reale carica emotiva. Che rapporto hai con loro? Che lavoro c’è dietro a delle interpretazioni così intense?

AZ – Zena, Margherita Morellini, faceva parte del mio entourage ed è sempre stata per me un’evidenza. Ho costruito il film su di lei, sul suo viso, sulla potenza del suo sguardo muto, sulla sua rabbia. Io e lei siamo molto simili. È in assoluto il mio alter ego. Ho incontrato Ludovica Rubini in casting e anche per lei la parola evidenza mi sembra la più giusta, la sua dolcezza e nello stesso tempo la sua determinazione mi hanno affascinato, è stata una scommessa per lei, di natura piuttosto timida, trasformarsi in Marzia, personaggio estremo, radicale nel suo essere disinibito e allo stesso tempo puro, e credo che la abbia vinta alla grande. Leonardo Giuliani mi ha affascinato per la sua incredibile espressività, per lo charme e l’eleganza naturale. È un attore nobile, nel vero senso del termine, per il personaggio di Alfonso ha costruito uno strato dietro l’altro, ragazzo crudele, sfrontato senza tabù e nello stesso tempo figlio abbandonato, picchiato, ferito a morte.

Ho scelto Luca Varone per la sua ironia. Adriano è muto (per scelta) ma vede, sente e « sa » tutto. È il più violento del gruppo, ma anche quello più dolce. La sua storia ce l’ha scritta nel suo sguardo, nel suo viso, nella sua fisicità e nella sua ironia appunto. Con Elia Nuzzolo che interpreta il ruolo di Tommaso, fratello-alter ego balbuziente di Zena, abbiam fatto un grande lavoro sulla balbuzie ma anche e soprattutto sull’innocenza del suo personaggio che è di fatto, diametralmente opposto alla sorella. Più Zena tace, più Tommaso parla, più Zena rumina la sua rabbia più Tommaso vuole piacere, essere amato, accettato. Più Zena vede più lui è cieco. Il risveglio lo porterà verso una scelta di non ritorno. È un innocente che è costretto a diventare colpevole per esistere.

 

AB – Un altro elemento che colpisce è il tuo approccio alla scrittura. Non aderisci a formule ma il film esplora, alla ricerca dello sguardo più adatto in cui sviluppare tutte le sue potenzialità espressive. Tu che cosa cerchi, cosa ti ispira? Quanto devi alla fase di stesura e quanto nasce durante le riprese?

AZ – Zena, Marzia, Alfonso e Adriano sono tutti veri, presi dalla realtà, la mia realtà, con il loro entourage di potenti, notabili, madri vittime o depresse, primari, cardinali e faccendieri che fanno collezione di animali esotici nella loro villa dell’Aventino… Anche Gisella, la tigre, è vera, si aggirava a Roma di notte sulla Nomentana sotto le mentite spoglie di una Pantera. Forse ne avrete sentito parlare. Se non è stata mai trovata (per la gioia del movimento studentesco) è perché il papà della vera Marzia (nome di fantasia) dalla cui villa era fuggita, non potendo denunciare per ovvie ragioni la sua fuga alla polizia, l’ha fatta catturare dai suoi stessi scagnozzi e l’ha uccisa. Nel mio film no. Nel mio film nessuno uccide Gisella.

Fare un film come questo è servito, a modo mio, a riconciliarmi. Uso il cinema da analisi (della morale comune) e da psicoanalisi (dell’etica personale). La classe al potere è rappresentata sotto il prisma familiare – tutti “tengono” famiglia, chi ha l’esercizio del potere e chi lo subisce –  e i ragazzi sono la rappresentazione di me stessa all’interno della famiglia italiana, quindi, di fatto, del paese stesso.

Rossosperanza mi ha permesso di riconoscere che, involontariamente o no, una parte di me ha fatto parte di questo buco nero morale come vittima ma anche come carnefice e la rabbia dei colpevoli, si sa,  a volte è più violenta di quella delle vittime. Grazie alla coscienza di questa verità, di questa colpevolezza, oggi posso dire di essere «guarita» e posso parlare liberamente e soprattutto  «cinematograficamente».

 

AB – Nel 2017 presentavi a Cannes Dopo la guerra, un dramma densamente intriso di politica, oggi sei a Locarno con un teen horror. Quali sono le differenze tra un film tutto sommato più lineare e canonico rispetto a un’opera libera come Rossosperanza? Quali sono, soprattutto, le sfide nella produzione e nella distribuzione?

AZ – Rispetto a Dopo la guerra, che seguiva una narrazione più lineare e un contesto storico più preciso, Rossosperanza è un racconto volutamente irriverente e sovversivo sia nella scrittura che nell’immagine. Il tono sagace, dissacratorio, a volte durissimo a volte tragicomico, mi sembrava adatto per sottolineare l’ingiustizia e l’assurdità del mondo dei protagonisti. Usare lo humour anche se tinto di nero, anzi di rosso come il sangue di Adriano, mi ha aiutato a far virare al comico delle situazioni drammatiche estreme o macabre come la festa “di Gisella”,  insinuando dietro questa facciata, una riflessione profonda. È stata nello stesso tempo una forma di difesa ma anche di filtro. Mi ha permesso di guardare in faccia e di prendermi gioco,  almeno il tempo del film, dei peggiori istinti degli esseri umani, compresi e soprattutto i mei. Allora cedere alla vanità, al potere, all’ingordigia, alla sete di vendetta, alla lussuria, alla rabbia cieca, a tutti gli istinti primari che ci rendono, appunto, tragicamente fallibili, esseri imperfetti e mortali, mi è sembrato accettabile e anche divertente. I Greci dicevano che la commedia è tragedia + tempo. In questo caso con un po’ di autoderisione si dovrebbe avere una commedia nera.

Produrre un film del genere è stato difficilissimo e distribuirlo ancora di più. Anche in questo caso, invito i giovani a esigere contenuti più complessi di quelli offerti su Netflix, è ovvio che se l’offerta si appiattisce e il riscontro degli spettatori si adegua, poco a poco la creazione d’autore dovrà rispettare regole sempre più “consensuali’ per piacere a tutti. Non credo sia questo il ruolo dell’arte in genere e sicuramente non del cinema inteso come arte. Mi aspetto dal cinema una possibilità di riflessione sul nostro mondo non una visione preconfezionata su quello che piace a tutti.

 

AB – Il cinema italiano sta vivendo una forte crisi. Le idee non mancano, ma gli ingranaggi non girano. Che consigli daresti a giovani cineasti, di cosa c’è bisogno in questo momento? E il pubblico ha un ruolo attivo in tutto questo?

AZ – Il cinema mi ha aiutato a crescere, a sopravvivere, a diventare adulta. Primo fra tutti il cinema italiano. Il primo amore, mai contrastato. Visconti e Antonioni, ma soprattutto Elio Petri, il mio primo amore, Petri il visionario, Cassandra al maschile destinato suo malgrado ad anticipare la nostra storia. L’adorato Pietrangeli, regista femminista nell’Italia di maschi alfa degli anni ‘60, prima del divorzio e dell’aborto. E poi Bellocchio, Bellocchio sopra tutti. Per questo film, la mia referenza cinematografica assoluta per quanto lo stile come la narrazione siano diversissimi resta I pugni in tasca.

Quindi sì, è vero, il cinema italiano vive una forte crisi, ma i nostri ancestri ci parlano sempre e continueranno a parlarci, sta a noi trasformarci e trasformali.

Per far girare gli ingranaggi, bisognerebbe andare in sala. Non ci sono altre soluzioni. Se poi, veramente la sala è destinata a morire e le piattaforme prenderanno tutto il posto allora i giovani dovranno esigere di partecipare alla creazione di un un nuovo immaginario, dovranno essere loro gli attori e i protagonisti di quello che si vedrà e non dovranno accontentarsi di accettare quello che è proposto da una generazione che di fatto parla un linguaggio diverso. È stato così per il cinema e sarà così per le serie, il mondo va avanti e sono i giovani che devono creare il loro linguaggio, qualunque esso sia.

 

AB – Grazie di cuore, Annarita, speriamo di poter vedere presto un tuo nuovo progetto. Stai già lavorando a qualcosa?

AZ – Sì, ma non posso ancora parlarne. Grazie tantissimo a tutti voi per avermi sostenuta fino qui. Il cammino è sempre lungo ma già farlo è una vittoria.

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