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Alain Parroni

Una sterminata domenica è uscito nelle sale italiane il 14 settembre. È l’opera prima di Alain Parroni, che l’ha anche scritta insieme a Giulio Pennacchi e Beatrice Puccilli, e interpretato da Enrico Bassetti, Zackari Delmas, Federica Valentini e Lars Rudolph. È il racconto di tre ragazzi che vivacchiano nel bel mezzo del nulla campagnolo, che ogni tanto si intrufolano nella vicina Roma per perdere tempo, in un eterno presente che sembra non dare mai nessuna soddisfazione. -E che ci frega? Molti lo hanno pensato, qualcuno lo ha anche detto. Di tutt’altro avviso è stata la giuria della sezione Orizzonti dell’80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, che ha insignito il film del premio speciale. Anche Wim Wenders, che l’ha co-prodotto, e Shirō Sagisu, che ha composto le musiche, non hanno avuto dubbi. Ma come fa una storia così legata al nostro territorio ad essere raccontata con una sensibilità e una forma così universali e capaci di annientare qualsiasi confine? Ce lo spiega Alain Parroni in persona, che il sottoscritto, dopo aver visto Una sterminata domenica due volte in una settimana, non vedeva l’ora di intervistare.

 

AB – Benvenuto Alain e grazie per il tempo che stai dedicando ai lettori di Giallo e Cucina. È tutto sommato un periodo di fermento per il cinema italiano, perché gli ultimi mesi hanno visto l’uscita di un buon numero di esordi che osano portare il pubblico fuori da una comfort zone, raccontando la nostra contemporaneità con sguardi incisivi e una forte impronta autoriale. Una sterminata domenica è stato uno dei più sorprendenti, in particolare per la fiducia che ripone nelle immagini come veicolo narrativo ed espressivo, qualcosa che molto spesso le nostre produzioni più blasonate scelgono di tralasciare. Come hai concepito questa provincia a livello visivo e come queste scelte hanno influenzato l’intero racconto?

 

AP – Prima di tutto, sono io che voglio ringraziare di cuore voi e tutti i lettori di Giallo e Cucina. È davvero fantastico avere l’opportunità di parlare del mio primo film, e sono grato a chiunque dedichi o abbia dedicato del tempo a seguirlo.

 

Realizzare il primo film significa sempre fare i conti con tutto quello che ci ha formato e ha plasmato il nostro modo di vedere le cose, riconoscere quindi lo sguardo interiore. Sono nato nel 1992, cresciuto nella campagna romana con la sua storia del cinema invadente; praticamente la mia educazione visiva è stata fatta da televisione generalista, cartoni giapponesi a basso costo e film d’autore scaricati da Internet. Immagina la combinazione di tutto questo quando mi trovavo a giocare nella campagna esistenziale Pasoliniana ma con un ritmo mentale da Shōnen giapponese.

 

Insomma, Una sterminata domenica è il risultato di questo mix di influenze. Spero che, guardandolo, la gente riesca a cogliere un po’ di questa miscela di esperienze.

 

ll film, tuttavia, non rappresenta soltanto un amalgama di influenze estetiche provenienti dall’audiovisivo che mi ha educato, ma anche un’esplorazione di tematiche etiche che mi sono state imposte. Mi sono inevitabilmente trovato a riflettere e interrogare quanto il cinema machista degli inizi degli anni ’90, che è stato il mio principale nutrimento durante l’infanzia e che per forza di cose ancora vedo divertito, abbia potuto generare in me sovrastrutture e gerarchie di genere.

 

Alex vive chiaramente questo disagio, sperimentando le tensioni di trovarsi in una storia che gli chiede costantemente di incarnare il “maschio alpha” del gruppo, il protagonista ideale per un film. Gli viene richiesto di guidare la moto, di maneggiare un fucile, di cacciare animali e di impersonare il padre che lavora per mantenere la famiglia. Tuttavia, la realtà è che Alex non corrisponde a nessuna di queste aspettative. Il suo disagio è tangibile quando pronuncia per errore “Madre” al posto di “Padre”. Al contrario, Kevin vive con serenità una fluidità naturale, senza porre domande superflue. Ama ciò che ama, indossa rossetto e orecchini, manifestando i tratti di chi non è ancora stato plasmato da un certo tipo di società mediatica, provoca anzi Alex:

 

– ”Vuoi fare il maschietto? Fallo!” –

 

È evidente che tutto ciò, e mi rivolgo a coloro che non hanno ancora visto il film, porterà inevitabilmente Alex a implodere o esplodere.

 

AB – Il film ruota attorno a un fenomenale trio di protagonisti frizzanti e imprevedibili, che suscitano una genuina tenerezza, palpabile anche nell’occhio che li racconta e li inquadra. Oggi, nella nostra realtà, chi sono Brenda, Kevin e Alex? Perché sono così, quali speranze hanno, che destino li aspetta secondo te?

 

AP – La sceneggiatura del film ha richiesto un periodo di circa sei anni, durante il quale mi sono immerso in innumerevoli interviste con adolescenti locali e provenienti dalle zone circostanti. Avendo appena superato l’adolescenza, era imperativo per me mantenere una connessione stretta con le sensazioni, i desideri e le speranze di quel periodo. La tenerezza, l’arroganza e la frustrazione, la mancanza di punti di riferimento sono stati elementi che mi hanno particolarmente colpito, ma il desiderio prevalente emerso da queste conversazioni era la volontà di lasciare un’impronta nel proprio percorso terreno.

 

Da ciascun giovane emergeva un profondo desiderio di emergere, di lasciare una traccia e una consapevolezza di essere parte di un dialogo personale con la Storia del mondo. Tuttavia, spesso questi ragazzi non disponevano degli strumenti adeguati per canalizzare questo desiderio, e finivano per diventare grandi e proiettati verso il futuro, mettendo al mondo figli in giovane età o attirare l’attenzione attraverso gesti violenti o aggressivi.

 

In definitiva, questo istinto alla riproduzione umana, al catturare e riproiettarsi verso il futuro è ciò che ha spinto gli uomini primitivi a dipingere sulle pareti delle grotte e agli individui in piena rivoluzione industriale a inventare il Cinema. La necessità di lasciare una traccia, sia essa fisica o emotiva, persiste nel tempo.

 

Alex, Brenda e Kevin coltivano inconsciamente l’aspirazione narcisistica di essere significativi, di lasciare un’impronta che conti nel mondo, proprio come contano i volti di marmo degli sconosciuti della storia che si ergono seriosi a Villa Borghese. È evidente che il destino di chi ambisce a far parte della storia non può che essere tortuoso.

 

AB – Alex, Kevin e Brenda non sarebbero così belli senza Enrico Bassetti, Zackari Delmas e Federica Valentini. Nel chiederti come funzionava il lavoro con i tre giovani interpreti ho una curiosità che mi divora: quanto di quello che abbiamo visto era scritto e quanto nasceva da un’ispirazione o una suggestione impreviste? Quanta libertà vi siete concessi?

 

AP – Girando 5 settimane da 5 giorni, dovevamo portare a casa tra le 3 alle 4 scene al giorno e immaginerai quindi che dovevamo essere molto mirati e precisi. Storyboard, disegni e prove fotografiche hanno guidato gran parte del processo, riservando l’improvvisazione solo per le scene che non potevamo risolvere attraverso la preparazione scenica.

 

Il contributo di Mirko Vigliotti (Aiuto regista) e Andrea Benjamin Manenti (Direttore della fotografia) con la supervisione dell’Art Director Flaminia Gentili, è stato fondamentale per il successo del set. Hanno sapientemente strutturato un piano di lavoro, coordinandosi con i movimenti del sole e sfruttando al massimo gli spazi e i mezzi a disposizione.

 

La presenza di un gruppo di attori così energico e collaborativo mi ha fornito una sicurezza impareggiabile. Anche in situazioni difficili, sapevo di poter contare su di loro. Ho un cellulare che fa video e tre facce che dialogano tra loro, anche se andasse tutto per il peggio avrei qualcosa su cui contare.

 

Spesso, è stata proprio la fiducia reciproca a generare i momenti più intensi del film. Alcuni esempi di improvvisazione notevole includono la scena della gomma bucata all’inizio, in cui Enrico, Zackari e Federica hanno effettivamente forato la ruota della macchina, e ho chiesto ai personaggi di cambiarla: lì i tre attori hanno dimostrato una padronanza dei loro personaggi in modo sorprendentemente naturale. Inoltre, una delle battute finali di Kevin nella scena in galleria, in cui Zac aveva completamente assorbito il sentimento del film, è esplosa in una frase semplice e incisiva, rivelando essere la conclusione perfetta.

 

AB – Per qualcuno Una sterminata domenica può essere un film ostico. Il fortuito incontro con Wim Wenders ha aiutato a portare il film all’attenzione dei produttori? Quanto è difficile proporre un’idea come questa, qual è l’iter, quali i compromessi?

 

AP – L’interesse dalla maggior parte dei produttori italiani non è mai mancato. Prima che il film arrivasse da Fandango tramite Giorgio Gucci, ho girato, parlato e incontrato tutti i protagonisti del panorama produttivo italiano. Questo mi ha consentito di comprendere le linee editoriali di ciascun produttore interessato a portare il film in diverse direzioni. Il materiale proposto era indubbiamente accattivante, comprendente disegni, filmati, interviste, foto, e, naturalmente, lo script.

 

È stato Giorgio a portare all’attenzione di Wim e dei Procacci e Paolucci il film, facilitando il loro incontro e consentendo loro di amplificarsi reciprocamente nel processo creativo. Avere Wim come produttore mi conferiva una sicurezza che mi faceva sentire come se non avessi nulla da perdere, ma tutto da esplorare. In un mondo in cui esistono innumerevoli film, videogame e serie che trattano di qualsiasi argomento, questo era il mio, personalissmo film. Solo grazie alla saggezza di produttori così curiosi e assetati di nuove prospettive ho potuto esprimermi senza riserve.

 

AB – Il film vanta un’altra straordinaria collaborazione, quella con Shirō Sagisu, compositore giapponese autore, tra le altre, di Neon Genesis Evangelion. Com’è nata questa interazione, com’è stato lavorare con lui e cos’ha donato al progetto?

 

AP – Riconoscere lo sguardo interiore, ciò che ci ha educato a percepire il mondo, è il primo passo verso la realizzazione del mio film, no? La mancanza di budget per la colonna sonora, ha fatto sì che giungessimo sino al processo di montaggio senza un compositore.

 

Io e Riccardo Giannetti, il montatore, condividiamo la stessa età e riconosciamo similitudini nelle nostre passioni e influenze condivise. Nel dover presentare una prima versione del montato a Rai Cinema, abbiamo improvvisato utilizzando alcuni brani di Shirō, scaricati violentemente dai suoi celebri lavori precedenti. Nonostante la mancanza iniziale di un compositore, abbiamo riconosciuto l’efficacia di certe sonorità in relazione alle immagini girate e abbiamo deciso arditamente di contattare Shirō.

Le difficoltà nel trovare il contatto di un compositore giapponese sono state miracolosamente superate dal fatto che, in quei giorni, Wim era a Tokyo per girare Perfect Days.

In meno di 24 ore, siamo riusciti a inviare a Shirō alcuni frammenti del film, e in sole 48 ore eravamo in sala di proiezione a Roma con lui, mostrandogli la prima versione del montaggio con i suoi brani editati illegalmente. Credo che abbia riconosciuto l’influenza profonda che il suo lavoro ha avuto su di noi e quanto lo sguardo rielaborato sia stato genuinamente originale.

 

L’incontro è stato un vero colpo di fulmine, sia per me che per lui. È stato come se un padre e un figlio si riconoscessero dopo anni, restituendosi reciprocamente pezzi di vita senza mai dover pronunciare una parola.

 

AB – Sagisu non è l’unico punto di contatto con Evangelion, il capolavoro di Hideaki Anno. Numerosi echi sono presenti, dalle inquadrature al ritmo di certe scene, fino alle atmosfere. Quali altre ispirazioni ci sono state e perché proprio quelle?

 

AP – Prima di realizzare il film, ho compiuto due viaggi che hanno radicalmente cambiato la mia percezione del mondo. Uno è stato a Tokyo e nei suoi dintorni, mentre l’altro mi ha portato a Nouakchott, in Mauritania.

 

In Mauritania, ho sviluppato una consapevolezza della vita in equilibrio tra sviluppo tecnologico e collettività rurale. Le automobili, i vestiti, persino le vecchie TV a tubo catodico che abbiamo abbandonato e gettato in qualche discarica, ora trovano una seconda vita, dialogando con gli smartphone e i social network. È stato un viaggio sia nostalgico che contemporaneo. La Mauritania è caratterizzata da un contrasto incredibile: pur essendo una città in sviluppo solo da pochi anni, mostra già un disequilibrio tra ricchezza e povertà che, insieme agli elementi scenografici, mi ha ricordato molto il litorale romano della mia infanzia.

 

Durante uno dei periodi più bui legati al film, invece, ho deciso di recarmi in Giappone. Lì, mi sono reso conto di quanto alcuni Anime abbiano influenzato i ritmi e gli atteggiamenti nella mia cultura quotidiana. Ho iniziato a studiare le pellicole che hanno caratterizzato la cultura giapponese sin dai primi anni del 2000. I film di Anno, Toyoda e Iwai, mi hanno scioccato per la profonda consapevolezza del mezzo digitale in equilibrio con l’individualismo metropolitano. Questi registi facevano dell’utilizzo delle inquadrature una vera e propria narrazione da Graphic novel, offrendo un respiro d’aria fresca rispetto alle produzioni americane di cui mi nutrivo, soffocate da sceneggiature che si chiudevano su se stesse come un cerchio gonfio di steroidi. Mi sono reso conto di quanto la cultura giapponese mi abbia educato a percepire il mondo esterno e, al mio ritorno a casa, ho iniziato a guardare le cose con occhi diversi.

 

AB – Ho fatto una domanda simile ad Annarita Zambrano. Pubblico, creativi, produttori: di cosa pensi abbiano bisogno e cosa pensi che debbano fare per migliorare lo status quo?

 

AP – Invito chiunque a compiere una delle azioni più dolorose e impegnative che si possano affrontare: essere sempre più consapevole di chi si è e, soprattutto, comprendere il motivo per cui si è scelto di intraprendere un percorso specifico.

 

Il pubblico cinematografico non è più quello di dieci anni fa; c’è un’eccessiva varietà di opzioni. Spesso, si guarda ai film con un approccio simile a quello di Tinder, dove esiste solo il “mi piace” o il “non mi piace”, senza un confronto o un dialogo con il pensiero dell’autore. Se manca il dialogo con la società e i film rimangono un’esperienza casalinga quasi pornografica, si perde il senso della scelta di questo mezzo, sia come fruitori che come creatori.

 

Desidero che ci sia una maggiore consapevolezza nel saper leggere e guardare i film, con una comprensione più profonda nei nostri commenti. È fondamentale capire che i nostri commenti non parlano solo del film, ma riflettono il nostro personale sguardo interiore e la relazione con lo sguardo dell’autore che ha realizzato il film, oltre alla comunità che si è creata intorno per realizzarlo. In un’epoca in cui si creano community e fan base persino intorno a carte da gioco, mostri di gomma, padelle, o calzini colorati, ogni film ha il suo senso d’esistere e merita rispetto. I film non sono prodotti commerciali, mai, sono racconti (a volte inconsci), testimonianze della società e di quelle persone che l’hanno realizzato. Poi il fatto che esista un modo sbagliato o giusto di fare le cose, appartiene ad un retaggio generato dalla prima società dei consumi, in cui per fare un film non bastava avere un telefono cellulare.

 

Così come lo dico al pubblico, chiedo sia ai produttori che ai creativi di esplorare e dichiarare apertamente il motivo per cui ci sentiamo in un certo modo di fronte allo sguardo di qualcun altro. Agli autori chiedo: perché vogliamo raccontare una cosa specifica attraverso immagini in movimento e non attraverso gli altri migliaia di mezzi disponibili? Perché scegliere di realizzare quel film specifico e, soprattutto, perché farne un film anziché altro? Qual è la ragione di generare una relazione tra immagini e suoni? Non dobbiamo solo intrattenere, distrarre, né raccontare spudoratamente i fatti di una “storia vera”. L’unica storia che saremo mai in grado di raccontare e vedere è la nostra. Non siamo più spettatori passivi, e sia i critici più amatoriali che i produttori più incisivi si renderanno conto prima o poi di avere una cinepresa in tasca. A un certo punto, credo, inizieranno, mi auguro, a rispondere con i film anziché con le parole. Generiamo immagini ogni giorno ed è con quelle che dobbiamo difendere le nostre idee, con quelle strutturare la nostra grammatica.

 

AB – Grazie mille Alain. Speriamo di rivederti presto in sala. A proposito, per caso bolle qualcosa in pentola?

 

AP – Vi ringrazio sinceramente. Al momento, sono concentrato nello sviluppo di due progetti distinti che esplorano l’etica e l’esaltazione delle tecniche che mi hanno plasmato: il disegno e la fotografia. In Una sterminata domenica è già presente qualche indizio, spero di poter tornare presto per condividerli con voi. Grazie ancora per il vostro tempo.

 

Oltre la morte, la settima arte.

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